29 dicembre 2010

Una classifica interessante.

Vi consiglio di dare un'occhiata alla seguente classifica:
http://www.lospaziodellapolitica.com/2010/12/the-lsdp-top-100-global-thinkers-of-2010/
Buona navigazione.

20 dicembre 2010

La Pista di Terra Rossa. Terza e ultima parte.



Diani, sabato 18 dicembre 2010. Water Lovers Beach Resort. Alle 5.30 del mattino, ancora buio, mezz’ora di canoa. Il mare è appena increspato, nero come petrolio con i riflessi della luna, tre quarti di luna scintillanti. Lo sciabordio delle pagaie si somma allo scroscio impetuoso e costante delle onde che si frangono sulla barriera corallina, c’è vento ed è nuvoloso. In canoa al buio è come scivolare per corridoi misteriosi e oscuri finchè si leva imperiosa la luce del sole che in prossimità dell’equatore giunge in pochi istanti. Dall’arancio, al rosa, al rosso, al bianco accecante, sono passaggi rapidi, nessuna attesa: l’improvvisa alba equatoriale.

Alle 9.00 partiamo. La pista per Shimba Hills è morbida di sabbia senza pioggia, rossa, silenziosa, deserta.

All’ingresso del parco c’è Aisha; quando chiedo: “Good morning, anybody here?” lei da casa sua, lontano dall’ufficio, si sistema i capelli, si infila qualcosa, aggiunge “One moment, please”, giacca militare mimetica su canottiera molto discinta, secca come un chiodo. Mentre sto partendo mi richiama e mi dà il suo numero di cellulare, “tante volte vi perdeste, ma non sempre c’è campo nel parco”. “E allora?” dico io.

Prendo la strada, di sabbia rossa, strettissima, cinta da una boscaglia fitta e aguzza di rovi pungenti, guida tranquilla a 20 chilometri l’ora.

L’avevo pensato il giorno prima della vacanza, forse l’avevo sognato di notte o percepito inconsciamente: cosa farei se incontrassi un elefante sulla pista? Spegnerei il motore per non innervosirlo o lo lascerei acceso pronto per una fuga; ma verso dove?

Ed ecco che cosa succede due chilometri dopo aver salutato Aisha: sto percorrendo una curva quando sono costretto ad una improvvisa frenata che, visto quello che mi compare davanti, vorrei invece assai più silenziosa, morbida e invisibile.

In realtà ho alzato una nuvola di polvere rossa. Davanti a noi un giovane maschio di elefante, belle zanne bianche, occupa l’intera pista. Non si può passare. L’emozione ci fa parlare ancora più piano del necessario. Ho la videocamera accanto e filmo per qualche secondo, spengo l’aria condizionata, abbasso i finestrini, sento il suo rumore, sta mangiando. Non spengo il motore. Mia figlia si fa avanti dal sedile di dietro per osservare meglio: siamo tutti e tre come ipnotizzati. Mi chiedo se ci sta annusando o no. Se lo sta facendo può sentire invaso il suo spazio ed essere molto pericoloso. Apre e agita le orecchie in modo nervoso, ci guarda, faccio 3 o 4 metri a marcia indietro, poi altri 5 o 6, col minimo di rumore, la pista è strettissima e sconnessa.

L’elefante si è accorto di noi, ci fissa, sembra nervoso, accenna con le orecchie aperte a caricarci, inizia per 4 o 5 metri una corsa contro di noi: l’adrenalina sale a livelli inimmaginabili e rischia di diventare paura. Con gli occhi sgranati guardiamo ogni minimo movimento dell’elefante: si ferma, mangia ancora tra le foglie sul bordo della pista. Guardo nello specchietto perché sono convinto che non sia solo, che con lui siano presenti i genitori. L’elefante si dirige ancora verso di noi, innesto di nuovo la marcia indietro pronto ad arretrare, mi fermo, la mano sul cambio perchè si ferma anche lui, mangia ancora nel verde, smuove i cespugli, infine fa qualche metro nel fitto della boscaglia. Aspetto alcuni secondi che sembrano un tempo eterno, non voglio essere precipitoso, so che sfilare davanti a lui sarà il momento più pericoloso, ma non devo neanche ritardare la partenza perché potrebbe tornare sulla strada, magari in compagnia del branco. Non lo vedo più e silenziosamente innesto le prima, poi la seconda e sfilo a pochi metri da lui. Ma mi devo rifermare subito. Davanti a noi, piazzato in mezzo alla pista, c’è uno splendido esemplare di femmina adulta, zanne grandi e integre, ci fissa, smuove la proboscide, agita le orecchie, soffia rumorosamente, ci guarda ancora. Il tempo si ferma per un po’, il silenzio è pesante. All’improvviso la madre segue il figlio per qualche metro e noi proseguiamo subito prima che ci ripensi. Non incontriamo il maschio.

La pista prosegue bellissima con alte alberature di corteccia bianca, il fondo è a tratti ruvido e pesante, a tratti morbido e polposo di sabbia fine e leggera.

Il Simba Rainforest Lodge è tutto di legno, non c’è un mattone. E’ circondato da una delle ultime foreste pluviali dell’Africa dell’Est e si specchia, coperto da rampicanti e fitte alberature fiorite, su un piccolo laghetto coperto di ninfee.

Dopo pranzo, alle 14.00, andiamo all’ufficio del Parco per chiedere un ranger armato e provare con lui a raggiungere le Shreddick Falls. Il termometro della macchina mi dà 38 gradi. Il militare di guardia mi dice che il ranger è andato a Mombasa, vede di trovarmene un altro. Fa un giro di telefonate e pochi minuti dopo arriva Lyn, ranger del Kenya Wildlife Service.

E’ una donna piuttosto giovane dalla faccia simpatica e rotonda, le treccine lunghe e curate, l’aspetto atletico, tuta verde militare e stivali di pelle nera. E’ armata di fucile G3, calibro 7,62. Sale in macchina con noi, si siede accanto a me. Dopo mezz’ora di pista veloce e polverosa fermiamo la macchina e iniziamo il breve trekking. Fa caldo, il sole è cocente. Si scende un sentiero ripido e senza vegetazione. La vista spazia sulle montagne e colline circostanti. Entriamo in una radura più umida e verde e poi, dopo un ponticello di travi di legno, iniziamo il cammino nella boscaglia. Da questo momento rimaniamo in assoluto silenzio. La prima è Lyn, segue nostra figlia, poi mia moglie, io chiudo la fila. Lyn prosegue con molta lentezza e getta lo sguardo attento nella boscaglia. Procediamo così per un po’, molto lenti, poi ci fermiamo prima di una piccola valle dove non ci sono alberi.

Avvistiamo un gruppo di elefanti. Sono sparsi e non molto vicini tra loro. E’ la stessa situazione della mattina con la differenza che ora siamo a piedi. Lyn ci avverte che userà il fucile, sparerà sulle cime degli alberi a ovest per allontanare il branco. Toglie la sicura al G3, punta e spara. Gli elefanti non si muovono, poi vanno verso est, in un tratto di foresta misto a savana. Passiamo in silenzio, dal muoversi dei rami degli alberi intuiamo il percorso del branco. Il sentiero scende ancora e la vegetazione si fa fitta e rigogliosa. Le cascate sbucano da una parete di roccia verticale, le acque sono immacolate, il bagno sotto il getto d’acqua fresco e piacevole. Lyn ci mette fretta. Ci dice che la sera scendono gruppi numerosi di elefanti, passare diventa complicato. Prima della valletta senza vegetazione la situazione è critica. Lyn spara più volte e ci nascondiamo tutti dietro l’erba alta per assistere al passaggio degli elefanti. Infine, sempre in religioso silenzio, passiamo il tratto di boscaglia e siamo sul ponte di legno. L’ultima salita prima di tornare in macchina e fare un ultimo giro mentre il sole inizia a posarsi sull’orizzonte. Ci fermiamo spesso per osservare giraffe, facoceri, splendide sable antilopes, bufali, folti gruppi di babuini. La sera nel lodge passa con i bush babies che salgono sul balcone della stanza insieme a rumorosi gruppi di colobus. Un folto gruppo di elefanti interrompe la notte per l’abbeveraggio.

Il mattino seguente all’alba riprendiamo la pista rossa che va a Kinango, sono 82 chilometri e due ore, se tutto va bene, che ci dovrebbero riportare a Samburu sulla Mombasa-Nairobi. Nessuno sulla strada, baobab imponenti e maestosi, villaggi brulicanti di vita rurale. Nessun turista viene da queste parti. La pista è a tratti dura, spezzata, pietrosa, ostile. In ogni villaggio chiediamo indicazioni sulla strada che si perde facilmente, ma non sbagliamo mai, le informazioni prese la sera prima da un vecchio ranger sono valide. Sono regioni a maggioranza mussulmana, ma le donne vestono di lilla, arancione e rosso. Il nero è inesistente. La gente è meravigliosa, gentile. Nessuna macchina, qualche camion, qualche moto, diverse biciclette. Stranieri zero. Nostra figlia parla a lungo delle esperienze vissute. Per lei è come aver letto in un solo giorno tre libri di storia, religione, scienze e geografia. Un mondo sconosciuto. Arriviamo a Samburu in due ore dopo aver evitato, sulla pista, zebre, cammelli, capre e asini.

Con altre 7 ore siamo a Nairobi.

28 novembre 2010

La Pista di Terra Rossa. Seconda parte.


Scrivere qualcosa sull’Africa è impossibile. I luoghi comuni sull’Africa sono molteplici. Ne ho già parlato a proposito delle giornate missionarie della domenica in Italia e della crescita esponenziale di NGO e ONLUS che danno dell’Africa un’immagine distorta.

Anche l’industria del turismo vende un’Africa molto particolare e falsa: il mito della natura selvaggia e incontaminata con la gente che vive e balla felice, spiagge di bianca sabbia corallina, parchi naturali dove avventurarsi in romantici safari, mercati pittoreschi, laghi verde smeraldo, floride cascate d’acqua, montagne e foreste di un mondo incantato e ormai perduto in un occidente postmoderno e postindustrializzato.
Durante i Mondiali di Calcio del 2010 in Sud Africa l’immagine di ragazze africane in vestiti succinti predominava tristemente nelle pubblicità, a cura degli stessi enti turistici africani e delle locali agenzie di viaggio.

L’idea dell’esotico si intride delle filosofie rousseauviane del “buon selvaggio”, dei desideri tempestosi e sognanti dei Romantici europei, dei torbidi e perversi scritti dei decadenti francesi di fine Ottocento, delle mitiche e più moderne letture di Ernest Hemingway, Joseph Conrad, Karen Blixen. Nella letteratura scritta dai bianchi i nativi d’Africa sono solo comparse e i protagonisti sono colonizzatori, esploratori, cacciatori, avventurieri, coltivatrici di caffè provenienti dal mondo occidentale. Sono storie tanto affascinanti quanto ambigue e servono a capire perché siamo attratti dall’Africa, perché sono nati i falsi miti del “mal d’Africa”. Non servono a capire l’identità dei popoli africani, al contrario.

Respirano di gloria stentata le opere di Wole Soyinka, premio Nobel 1986, anno in cui vivevo nella sua Nigeria, o di Nagib Mahfuz, Nobel 1988, o di Nadine Gordimer, Nobel 1991, e non cambiano gli stereotipi della metacultura europea sull’Africa.

Nel giugno 2008 lo scrittore kenyano Binyavanga Wainaina pubblica il breve saggio “Come scrivere sull’Africa” (http://www.granta.com/Magazine/92/How-to-Write-about-Africa/Page-1). Il testo è satirico e parla dei luoghi comuni sull’Africa. E’ una sorta di manifesto, in forma di parodia, di ciò che bisogna evitare quando si parla di Africa. Nelle interviste seguite alla pubblicazione Wainaina racconta dei molti stranieri che gli inviano lettere per ottenere il suo illuminato giudizio, una licenza di scrittura, quasi il permesso di scrivere prima di pubblicare i propri saggi. Oggi quegli stessi occidentali che hanno “rubato” l’Africa, l’hanno schiavizzata, occupata, colonizzata, sezionata e inventata anche sul piano semiotico, forse tardivamente pentiti, hanno bisogno del permesso dei nativi, una sorta di patente del “politicamente corretto”.

Anche gli scrittori africani usano, quasi sempre, le lingue dei colonizzatori: l’inglese prevalentemente, poi il francese, ma anche il portoghese, lo spagnolo; a volte, di rado, l’italiano. Molto spesso vivono nella libertà del mondo occidentale: negli USA, nel Regno Unito, in Francia. Vincono premi e ricevono finanziamenti dal mondo culturale e accademico occidentale. Scrivono per un pubblico colto che spesso non è africano, ma straniero. E queste sono contraddizioni che bisogna saper cogliere. E un altro rischio che si corre quando si scrive di cose africane è quello di dare sempre ragione all’Africa e agli africani, non saper vedere le loro colpe come causa delle loro disgrazie. Colpe che sono numerose quasi quanto i delitti perpetrati dal mondo occidentale nei confronti degli africani.

L’Africa è composta da 53 nazioni. Ognuna è diversa dall’altra. Pensare che gli africani siano tutti uguali è un’assurdità. In Africa esistono più di duemila lingue e ogni popolo ha la sua specifica identità culturale: è difficile trovare un tratto comune a tutti. Molti autori pensano alla musica come ipotizza Richard Dowden nell’introduzione del suo libro “Africa. Altered states, ordinary miracles”, ma io non concordo. La musica cambia radicalmente da un paese all’altro.

Guardate l’Italia su una carta geografica. Separata dalle Alpi dal resto d’Europa la nostra penisola assomiglia a un ponte proteso nel Mediterraneo verso il continente africano. Con 20 minuti di aliscafo si va dall’Italia alle coste africane, a Tunisi. Eppure sappiamo tutto di New York, dei suoi yellow cabs, della Quinta Strada, del Rockfeller Center e non sappiamo niente del continente che ci sta davanti, a un volo di gabbiano, e che è grande cento volte l’Italia.

Devo fare un viaggio in macchina nei prossimi giorni. Ho in mente una deviazione dalla strada principale. Alcuni me la consigliano per la sua grande bellezza, altri mi dicono di lasciar perdere. Da una parte c’è la possibilità di attraversare una folta foresta vergine, sbucare su un vasto altopiano prima verdeggiante e poi roccioso, incontrare branchi di elefanti in libertà, vedere il mare dall’alto delle verdi colline e respirarne l’aria.

Dall’altra, se ha piovuto, la strada potrebbe essere un fiume, i guadi del fiume difficili, il fango un acquitrino insuperabile, il tratto nella foresta pieno di ostacoli, l’altopiano un deserto ostile dall’aria secca di polvere.

Sono cento chilometri di pista di terra rossa.


continua


RIPRODUZIONE RISERVATA
Paolo Giunta La Spada

18 novembre 2010

La pista di terra rossa.



In Italia si parla poco d’Africa. Ancora meno di africani: perfino la strage di Castel Volturno è stata dimenticata (http://www.nigrizia.it/sito/notizie_pagina.aspx?Id=10091&IdModule=1).

Nel nostro Paese l’Africa è rappresentata spesso da spot pubblicitari che invitano a fare beneficenza. In televisione o sui giornali compare l’immagine di un bambino povero e sfigato, magro, smunto, con gli occhi grandi e neri, e sotto alla foto il numero di un conto corrente. L’Africa è associata all’idea della povertà, della tragedia, della malattia e della morte, all’idea dell’aiuto: esistono migliaia di ONG, Associazioni non Governative, nate per “aiutare i bambini africani”. Provate a cercarle in Internet, presentano un’immagine distorta dell’Africa per rastrellare fondi che non sempre raggiungono le popolazioni africane.

Anche nelle chiese, la domenica, si chiedono i soldi per i missionari in Africa (sempre con la foto del bimbo con gli occhi grandi e smarriti).
E’ vero l’Africa è povera, terribilmente povera (http://paologls.blogspot.com/2010/02/le-terre-di-nessuno-la-teoria-delle.html).
E’ anche vero che i poveri, terribilmente poveri, esistono anche da noi, in Italia, e sono tanti. Ma di questi non si parla: fa male al governo, che preferisce nasconderli per vergogna, e fa male ai benpensanti che li ignorano per non disturbare la loro placida quiete sociale. Inoltre in quasi tutti i Paesi africani ci sono molti ricchi e soprattutto molta classe media che ha gli stessi problemi e spesso lo stesso stile di vita della nostra classe media (scuole pubbliche o private da scegliere per i figli, mutuo della casa da pagare, rate della macchina ogni mese). Per i media italiani ed europei la classe media africana non esiste, ci sono solo gli africani poveri da aiutare e un ricco dittatore da condannare. Tutti gli altri non ci sono.

Inoltre l’Africa non è affatto povera: oro, petrolio, diamanti, ferro, carbone, stagno, rame, coltan, legno, frutta, thè, caffè. Sono gli africani, spesso, ad essere poveri in una terra che invece è piuttosto ricca.

Il Nulla

L’Africa è associata anche all’idea del Nulla: un giorno a Roma nella mia scuola di Trastevere un allievo di 18 anni mi chiese, anno scolastico 2008/2009, “prof, ma come riesce a far benzina in Africa?” confermando che nell’immaginario di molti giovani l’Africa è la stessa descritta dai colonialisti della fine del XIX secolo, un luogo ostile e selvaggio senza civiltà, un NON SPAZIO senza alcuna forma di urbanizzazione, le città inesistenti, la benzina introvabile.

Non sapeva il nostro alunno (poi l’ha capito…) che in Africa esistono alcune tra le più grandi metropoli del pianeta: Lagos: 16 milioni di abitanti; Il Cairo 15 milioni; Kinshasa 8,5 milioni; Johannesburg e Khartoum 5 milioni ognuna; Nairobi, Addis Abeba e Alessandria d’Egitto 4 milioni ciascuna; Casablanca e Abidjan 3,5; e poi Kano, Ibadan e Città del Capo ciascuna con 3 milioni; Algeri, Dar es Salam, Dakar, Durban, Luanda, Conakry, Tripoli, Accra, Rabat, Kaduna, Maputo, Freetown, Lubumbashi, Brazzaville, Yaundé, Port Harcourt, Bamako, Antananarivo, Mogadiscio, Kampala e Maiduguri sono tutte metropoli gigantesche con milioni di abitanti.

Del resto molti italiani conservano l’immagine dell’Africa tramandata dalla propaganda colonialista del passato: una terra di selvaggi che aspettavano con ansia la civiltà per essere liberati dalla barbarie. Dell’Africa si è sempre saputo poco: “Hic sunt leones” scrivevano i cartografi del Medioevo sulle mappe dell’epoca non sapendo cos’altro immaginare.

Come si fa a negare che per i viaggiatori bianchi il fascino dell’Africa era costituito appunto dall’ignoto, dai grandi spazi inesplorati, dalla natura tanto ostile quanto incredibilmente bella? Ancora adesso le descrizioni dell’Africa si concentrano sulla grandezza sterminata delle savane, dei deserti e delle foreste, sui cieli gonfi di nuvole basse in continuo movimento, sulle inestricabili e variopinte forme di vegetazione attraversate a stento da anguste e misteriose piste di terra rossa.
Anche a me, a volte, capita di emozionarmi se guido su una pista di terra rossa nel mezzo di una fitta foresta.
Mi piace quando riesco a superare i tratti peggiori grazie al mio abbastanza consumato sistema di guida.
A volte mi attraversa la strada un dik-dik, un gruppo di struzzi mi corre accanto, incontro con lo sguardo rapido una famiglia di elefanti, fermo la macchina, spengo il motore, ascolto assorto i rumori del mondo naturale, cammino in silenzio per seguire un branco di animali e osservarlo da vicino, il cuore che batte. Studio con gli occhi arsi dalla polvere il fondo della pista cercando di capire se la macchia che vedo in fondo all’orizzonte è fango, o pietra, o ghiaia, o un tronco d’albero messo apposta per fermare la mia corsa e far finire il viaggio per sempre, proprio lì in quel punto.
Se la sagoma in fondo è un animale o una persona; un cacciatore di frodo, cioè uno che mi può accoppare, o un pastore con le sue capre e i cammelli. In un’Africa sempre più fatta di metropoli e modernità, shopping mall e collegamenti wifi, la pista solitaria di terra rossa, con i suoi colori e abbagli, è ancora un classico topos dell’avventura, l’incontro con l’ignoto, il gorgo di paura e adrenalina, la sfida con noi stessi.

Ma poi succede che di piste di terra rossa ne faccio così tante che alla fine perdono tutte il loro presunto fascino, dopo 8 ore di guida sogno l’asfalto, spero solo di non bucare, non vedo l’ora di arrivare al villaggio seguente, autoservizio, un piatto di nyama choma, doccia (calda o fredda che sia).

La pista di terra rossa è come la radio a batteria. Trovi ovunque, in Africa, anche nei luoghi più sperduti, un uomo con una radio a batteria. E poi un pick-up Toyota. E tanti bambini. Ogni cielo con la luce forte del sole e il giallo ocra delle case di terra nasconde il senso di una fisicità forte, colorata. Il sudore, il corpo, la maternità. Il mistero della natura ostile e benigna nello stesso tempo. Il destino. La lotta eroica e solitaria contro gli elementi e la rassegnazione al destino. Samba Traorè, il protagonista del film di Idrissa Ouedrago, è un uomo che si piega al destino con virilità. Il pick-up dei militari lo porta via sulla consueta pista di terra rossa. La moglie rimarrà fedele per sempre. L’amico si farà sparare per salvarlo.
In Africa i sentimenti sono roba seria. E anche le vendette.

continua

© RIPRODUZIONE RISERVATA PAOLO GIUNTA LA SPADA

31 ottobre 2010

Dall'Isola di Lamu, Kenya

La guerra di gennaio 2011

Isola di Lamu, Kenya. Il proprietario dell’albergo di Shela non è preoccupato per la costruzione del nuovo porto. Un po’, io credo, per non creare l’idea che Lamu sia “finita” da un punto di vista turistico-ambientale, un po’ perché pensa che i tempi siano lunghi come spesso succede in Africa. Proprio qui a Lamu sarà costruito uno dei più grandi porti di tutta l’Africa. L’accordo è stato siglato dal Presidente del Kenya Mwai Kibaki e dal premier cinese Hu Jintao. Il progetto è già in fase esecutiva e a Manda Bay ci sono già ruspe e geometri all’opera. Perché vogliono costruire questo porto in un arcipelago così ricco di storia e con un mare dall’acqua immacolata? Per capirlo bisogna fare un salto di quasi mille chilometri e spostare la nostra attenzione a Juba, Sud Sudan. Lì e in tutto il Sud Sudan il 9 gennaio 2011 ci sarà un referendum per decidere l’indipendenza del Sud dal resto del paese. Dopo 50 anni di invasioni e persecuzioni da parte del governo di Khartoum è facile supporre che la totalità della popolazione (escluso il 10% dei mussulmani) voti per l’indipendenza. Il Sud Sudan avrà sicuramente l’appoggio delle Nazioni Unite con poche eccezioni (l’attuale processo di pace in Sudan è monitorato dall’ONU). Ci saranno grandi festeggiamenti e i guerriglieri del Fronte di Liberazione Popolare del Sudan spareranno in aria per la vittoria conseguita dopo decenni di guerra. Anche la vasta comunità cristiana del Sud Sudan (25% della popolazione) tirerà un sospiro di sollievo dopo anni di stragi, attacchi, persecuzioni. Nel Sud prevalentemente animista e cristiano tornerà la libertà di culto. L’indipendenza segnerà la fine del tentativo di islamizzazione forzata del territorio. La guerra condotta dal regime fondamentalista islamico di Khartoum a danno delle popolazioni del Sud è stato un tentativo di genocidio: 2.500.000 di morti e un milione di profughi e rifugiati. Il nuovo stato sarà quindi riconosciuto dalle nazioni del mondo, in primis da quelle occidentali. Il nuovo stato sarà anche molto corteggiato perchè il Sud Sudan produce quasi tutto il petrolio sudanese ed è ricchissimo di giacimenti e minerali preziosi. Tutto bene, dunque? Apparentemente con l’indipendenza e la pace arriverà anche maggiore benessere. A Juba, capitale del Sud Sudan, arriveranno capitali da tutto il mondo. I proventi del petrolio e delle altre attività di estrazione di minerali arricchiranno le casse dello stato nascente e creeranno opportunità di investimento e profitto. A Juba arriveranno uomini d’affari, imprenditori, mediatori, cooperanti, diplomatici per le nuove rappresentanze. Ma c’è la probabilità che Juba si riempia anche di spie, agenti, emissari e addetti militari che non hanno alcuna intenzione di appoggiare l’indipendenza del nuovo Paese. C’è un rilevante dettaglio: il petrolio del Sud per essere esportato passa per il Sudan centrale e finisce a Port Sudan. Se ci sarà l’indipendenza del Sud è arduo pensare che il resto del paese permetta il passaggio nel proprio territorio senza battere ciglio. Non sarà semplice trovare un accordo e non è questo che ci si può aspettare dal presidente del governo di Khartoum Omar Al Bashir. Il generale Bashir prese il potere nel suo Paese nel 1989 con un colpo di stato, chiuse tutti i giornali e partiti politici assumendo il totale controllo di ogni potere legislativo ed esecutivo. Alleato del Fronte Islamico Nazionale instaurò la Sharia nel 1991 e da allora ha condotto una politica di sterminio nei confronti dei cristiani del Sud. Il 14 luglio 2008 è stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in particolare contro le popolazioni inermi del Darfur. Il 4 marzo 2009 è stato emesso un mandato di cattura nei suoi confronti, ma la Lega Araba, molti Paesi africani e la Cina hanno criticato il provvedimento rendendolo nei fatti non esecutivo. Lo scorso agosto, infatti, Bashir era presente a Nairobi alla cerimonia ufficiale per la nuova costituzione keniana, ma le autorità non hanno dato l’ordine di arrestarlo. Bashir è uomo temuto perché si conoscono le sue capacità di organizzare movimenti di guerriglia in ogni paese africano. Si dice che il premier etiopico Melles Zennawi abbia dichiarato: “Andrebbe arrestato, ma chiunque lo chieda il giorno dopo ha la guerra alle frontiere”. E’ logico pensare, quindi, che il futuro governo del Sud Sudan si organizzi per raffinare e commercializzare gas e petrolio costruendo una linea alternativa a Port Sudan. Il progetto di un polo ferroviario stradale con relativa oil pipe line è una realtà. Coinvolgerà Sud Sudan, Uganda, Kenya ed Etiopia. Tra l’altro da Juba a Port Sudan sono 800 chilometri mentre da Juba a Lamu sono solo 725 chilometri. C’è già l’appoggio pieno degli americani e dei cinesi. L’azienda che ha i principali contratti di costruzione in affidamento è la tedesca ThyseenKrupp Gft Gleistechicnik mentre l’americana Ayr Logistics gestirà i finanziamenti. La costruzione coinvolgerà le economie dei quattro paesi interessati. L’Etiopia sta pensando di costruire un asse stradale e di trasporto petrolio collegato a Lamu visto che Gibuti è prossimo alla paralisi e gli sbocchi al mare di Somalia ed Eritrea sono inservibili o inopportuni (Assab è inutilizzabile dall’Etiopia dopo la guerra del 2000 e i porti somali sono sotto il controllo delle corti islamiche o dei pirati). Il porto di Lamu non è quindi solo un’opzione keniana, ma un chiaro esempio di economia globale. Dopo il 9 gennaio 2011 il progetto diventerà ufficiale e, da un punto di vista politico oltre che economico, troverà sponsor certi nella Banca Mondiale, nell’amministrazione Obama, in Europa e nel mondo occidentale, nell’India e nella Cina. All’asse Juba-Addis Abeba-Nairobi si contrapporrà l’asse Khartoum-Asmara-Al Quaeda Somalia. E’ facile pensare che, oltre a Khartoum, anche Al-Quaeda tenterà di contrastare lo sbocco al mare del nuovo stato animista e cristiano e lo sviluppo di paesi alleati con l’Occidente come il Kenya e l’Etiopia. L’attuale è un periodo di studio e conteggio delle forze in campo: il referendum di gennaio farà scoppiare le contraddizioni e la situazione nel corso del 2011 sarà difficile, se non impossibile, da controllare. Il conflitto non avrà un carattere locale, ma per la posta in gioco, la vicinanza geografica ai conflitti asiatici e i collegamenti politici e religiosi sarà di rilievo internazionale. Per l’Italia, come per le altre nazioni occidentali, sarà impossibile non schierarsi. Essere amici di tutti, come spesso fanno i governi italiani in politica estera, significa non essere veramente amici di nessuno. Dare soldi a pioggia nel Corno d’Africa, attraverso la nostra Cooperazione allo sviluppo, specie in tempi di crisi, non è conveniente né per il contribuente italiano, né per le popolazioni africane che dovrebbero essere beneficiate. Spesso i popoli vengono depredati da dittatori spietati che usano gli aiuti internazionali per rafforzare il proprio potere personale.


Lo sviluppo sostenibile

L’opera faraonica strada/ferrovia/oil pipe line da Juba a Lamu fa venire in mente il tema dello sviluppo sostenibile in Africa. A parte i tratti di ferrovia in Uganda che potranno essere facilmente collegati al progetto (da Gulu e Tororo in Uganda ad Eldoret in Kenya) il resto è da costruire. Il tracciato è già fatto e sta nella conformazione naturale del territorio, non si potrà attraversare il Lago Turkana, si aggirerà il Monte Kenya per scendere a valle lungo il tracciato del fiume Tana. Gli Etiopici, invece, non potendo attraversare l’alta valle del fiume Omo rafforzeranno il valico di Moyale e la strada che da Mega va fino ad Awasa. E’ evidente che opere di siffatta dimensione e importanza si prestano a considerazioni sul tema dello sviluppo sostenibile. E’ ragionevole ritenere che l’economia delle quattro macroregioni (Sud Sudan, Uganda, Kenya, Etiopia) possa trarre beneficio e impulso allo sviluppo. E’ anche logico pensare che un’opera del genere possa modificare e in parte distruggere delicati ecosistemi naturali che sono unici al mondo. E’ facile immaginare che i cantieri coinvolgeranno le popolazioni locali: molti troveranno lavoro, ma altrettanti perderanno pascoli e terre, acque e territorio. Ci saranno deportazioni forzate e blocchi. Mi viene da pensare ai Borana dell’Etiopia, ai Pokot del Kenya, ai Nuer e ai Dinka del Sudan, solo per fare qualche esempio. La loro vita sarà probabilmente sacrificata alle esigenze dello sviluppo globale, al profitto delle grandi multinazionali cinesi, indiane, americane, tedesche. L’altro giorno ho firmato una petizione che chiede al governo della Tanzania di non costruire un'autostrada all’interno del Parco Nazionale del Serengeti. Certamente anche la strada Lamu-Juba susciterà reazioni e rivolte da parte delle popolazioni locali e dei gruppi ambientalisti. A Lamu sorgerà il più grande porto dell’East Africa per il trasporto container e saranno costruite le piattaforme petrolifere per l’attracco delle petroliere e il trasferimento del gas e del petrolio proveniente dal Sud Sudan. Moderne autostrade a 4 corsie collegheranno il Sud Sudan, l’Uganda, l’Etiopia e il Kenya permettendo il commercio di idrocarburi e l’approvvigionamento di carburante nelle macroaree interessate e l’export in tutto il mondo. Lo scambio commerciale tra le regioni godrà di un grande impulso: frutta delle terre Oromo, banane delle piantagioni ugandesi, bestiame dell’altopiano, caffè, marmo, grano, legname, materiali da costruzione provenienti dalla Cina e dall’India, derivati chimici da idrocarburi andranno a favorire lo sviluppo di regioni remote da sempre chiuse allo sviluppo. D’altra parte le splendide spiagge lambite dall’acqua cristallina di un mare smeraldo a Manda e a Lamu scompariranno o saranno ricoperte di altri colori. I dhow, i pescherecci in stile locale con le prue di legno scolpito che assicurano la pesca e il trasporto dei passeggeri da un’isola all’altra dell’arcipelago, diventeranno un ricordo sbiadito nelle foto fatte oggi dai turisti. La fauna e la flora del mare saranno distrutte dagli scarichi di catrame e combustibile.

Scontato per molti europei dire di no a un certo tipo di sviluppo, ma altrettanto facile dimenticare che il petrolio per le automobili che accendiamo ogni giorno viene in parte considerevole dall’Africa come i minerali che servono ai nostri portatili e cellulari. E’ facile anche dimenticare che noi europei abbiamo distrutto il nostro continente tagliando l’immensa foresta che ricopriva, tanti secoli addietro, l’intera Europa e che fu sacrificata prima al pascolo e all’agricoltura e poi all’urbanizzazione. Facile per noi dire agli africani o ai brasiliani: “Salviamo le foreste”, ma quello che rivendicano i popoli poveri è lo sviluppo economico e il benessere che noi abbiamo già largamente conseguito anche se al prezzo di immani devastazioni ambientali e antropologiche.

La pressione demografica e la forza spietata del capitalismo globale stanno aprendo una nuova pagina, tanto affascinante quanto triste e drammatica, della storia d’Africa.

Lo penso con lucido e disincantato realismo, ma anche con una vena di rimpianto per l’Africa che non c’è più o che va scomparendo. Lo penso mentre il caicco, abilmente guidato da Abdul, ci porta a vele spiegate da un’isola all’altra dell’arcipelago di Lamu. Che ne pensi, gli chiedo, del progetto del nuovo porto? “Ci spoglierà” usa queste parole, “delle nostre risorse, della vita stessa. Tutti i pescatori” mi dice, “sono contrari, noi stiamo bene così con i turisti e la pesca, il nuovo porto per il petrolio non ci serve, ci opporremo, Allah è grande”.
Riproduzione Riservata Paolo Giunta La Spada

28 ottobre 2010

Isola di Lamu, Kenya.


L’atterraggio sulla pista di Lamu è un po’ ruvido. Il piccolo bimotore ad elica da 36 posti frena fragorosamente e prende un po’ di inclinazione. L’aeroporto: una casetta di legno e una tettoia per il sole. C’è una stanza-moschea per le preghiere. Un bar con gli infissi scrostati serve su un unico tavolo poche bevande prese da una ghiacciaia posata per terra. All’arrivo qualche facchino, alcune donne velate, uomini d’affari indiani in consunti abiti grigi, una coppia di distinte signore europee e due ragazze keniane con cappello di paglia. Ci aspetta il giovane Abdul, le tre valigie vengono spinte su una carretta fino al molo. Mi aspettavo più caldo, invece una piacevole brezza spira dal mare. Una vecchia imbarcazione ci porta a Shela in meno di mezz’ora. L’arcipelago di Lamu è composto da tre isole principali, Lamu, Pate e Manda, più un mucchio di isolotti minori. A Lamu non ci sono automobili o altri mezzi motorizzati. Si va a piedi, con le barche o con gli asini. La città, nel 2001, è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità e appare come il più antico borgo di architettura Swahili dell’East Africa. Qui, molte case sono costruite in pietra di corallo e legno di mangrovia e nascondono al proprio interno cortili lussureggianti e giardini fioriti. Le porte e i balconi d’epoca sono scolpiti e decorati. L’aspetto generale è quello di un animato villaggio, per metà arabo e per metà africano, in riva al mare. Arriviamo per la visita al mattino presto, la giornata è bella, la folla al molo invadente e variopinta. La rada è piena di dhow, le antiche imbarcazioni arabe a vela, vecchi caicchi con la caratteristica prua dipinta con scritte colorate. Dal molo alla piazza sono pochi passi, lo sportello dell’Immigration Office di tanti anni fa, il vecchio forte dipinto di giallo ocra. La scena pare una cartolina sbiadita degli anni trenta: i vecchi intunicati di bianco chiacchierano all’ombra di due alberi secolari, il fez sul capo. Giovani scamiciati spingono cigolanti carrette cariche di mercanzia: taniche di plastica o di latta, bombole di gas, legna, tubi di ferro. Strilla il venditore di giornali. Passa qualche vecchia bicicletta trillante di campanello, alcuni ragazzi reclamizzano con cantilene le proprie merci nelle ceste: rossi manghi, verdi lime, banane, piccoli dolci smielati, aglio, cipolle, samosa fritti. Gli asini trottano a gruppi, trasportano ogni genere di merce, dalle pietre per le costruzioni al pesce fresco. Rendono faticoso il passaggio nei vicoli più stretti. Molte donne sono velate di nero anche sugli occhi. Si sente il loro profumo forte da bigiotteria. Altre s’abbigliano all’africana con i colori del proprio clan. Alcune vestono all’occidentale, ma con stile sobrio. Il mixer tra cultura Bantu, Araba, Persiana, Indiana ed Europea è evidente. 37 moschee, una chiesa cattolica, qualche tempio protestante. I colori dei buganvillea sono rosa cupo, lilla, bianco, giallo arancio. Gran parte delle strade sono di sabbia, senza pavimento. C’è odore di sporco, folate di panni lavati stesi al sole, spezie, pesce fritto, coriandolo, cumino, aria di porto che ristagna, sabbia umida. La periferia dell’abitato è percorsa dai canali di scolo delle case, le condizioni generali sono di sporcizia, ovunque c’è penuria d’acqua e l’anno scorso, con la stagione secca, ci sono stati diversi casi di colera.

Nel pomeriggio il nostro dhow fila a vele spiegate nella laguna, verso la costa est di Manda e Lamu dove l’oceano è aperto e si raggiunge la barriera corallina. Prima della sera navighiamo nei canali di mangrovie, il vento è cessato, la barca è quasi ferma nel silenzio.
Per tornare a Shela riprendiamo il mare aperto e la vela si gonfia del vento forte e degli abbagli del sole che tramonta. Tocchiamo terra col cielo ancora pallido. E’ l’ora della preghiera. Sulla spiaggia si snoda la coda degli uomini che vanno a pregare; gli ultimi pescatori s’affrettano a casa con le ceste piene di piccoli tonni; le ragazze, il capo coperto, sciamano vocianti dopo un giorno di scuola.

5 ottobre 2010

Storie di Mari e Migranti.

Quest’estate abbiamo scoperto una triste pagina della nostra politica estera. La pioggia di fuoco abbattutasi sul peschereccio italiano in acque internazionali proveniva da un’imbarcazione italiana, cioè pagata dal contribuente italiano, e con ben sei militi della nostra Guardia di Finanza che hanno fatto da spettatori immobili a un attacco armato da parte degli amici libici. Abbiamo scoperto, in sostanza, che noi italiani paghiamo degli stranieri che in un battello, anche quello comprato e regalato da noi, sparano a pescatori italiani che lavorano! La prima spiegazione riportata dal TG1 è stata la seguente: il Ministro Frattini: “i libici hanno sparato in aria però poi hanno colpito gli italiani”. Il Ministro Maroni, invece, disse che avrebbe aperto un’inchiesta i cui risultati a tutt’oggi non è dato di conoscere. Secondo me sarebbe il caso di azzerare e rivedere ogni accordo con la Libia a partire dal diritto dei nostri connazionali di pescare in acque che libiche non sono. Erano a carico dei contribuenti italiani anche le escort, pagate dal governo 80 euro a testa e scelte non si sa come, per ascoltare un discorso di propaganda di Gheddafi in visita in Italia. Un evento del genere, cioè un dittatore che si esibisce in uno show organizzato da un paese europeo e con pubblico prezzolato, non sarebbe neppure ipotizzabile in una qualsiasi nazione liberale, europea o occidentale. I due fatti messi insieme fanno capire quanto sia debole e confusa una politica estera che invece, in una congiuntura così grave, dovrebbe essere chiara e coerente. Stupisce che gli elettori italiani di destra riescano a sopportare lo spettacolo di un’’”italietta” da cinecommedia che prende “schiaffi in faccia” non da grandi potenze, ma da protagonisti molto discutibili della politica arabo-mediterranea. Un altro esempio della confusione che regna in Italia è dato dalle relazioni con l’Eritrea. Il 18 settembre scorso era l’anniversario della feroce repressione che il regime del Presidente Isayas Afawork, al potere da 19 anni, ha condotto contro i dissidenti, quasi tutti eroi della trentennale guerra di indipendenza contro l’Etiopia. Il giorno 18 settembre 2001, infatti, scompariva nelle carceri di Asmara Petros Salomon, il mitico comandante dell’EPLF, poi ministro della Difesa e degli Esteri nei primi anni dell’indipendenza. Di lui e di molti altri intellettuali e cittadini eritrei in carcere non si sa più nulla. Sono scomparsi dopo l’arresto e la detenzione in container nascosti nel deserto eritreo. L’Organizzazione delle Nazione Unite ha chiesto di visitare i luoghi di detenzione senza ricevere alcuna risposta. L’Eritrea è anche responsabile di finanziare Al-Sheebab e le corti religiose islamiche che seminano attentati in Etiopia e in Somalia e che, per loro stessa ammissione, fanno ormai parte del fronte antioccidentale legato ad Al-Quaeda e agli altri gruppi della Jiaad islamica che intendono destabilizzare l’intero Corno d’Africa. Il governo eritreo è stato denunciato dall' EAJA (Eastern Africa Journalists Association) per l’arresto e la tortura dei giornalisti eritrei colpevoli di non pensarla come il Presidente Afawork che vieta l’ingresso in Eritrea anche ai giornalisti italiani ed europei. L’8 e 9 luglio 2010 i cittadini eritrei in Italia hanno protestato davanti all’Ambasciata della Libia a Roma e presso le Prefetture italiane perché molti eritrei che giungono nel nostro Paese per sfuggire al regime di Isaya Afawork vengono inspiegabilmente respinti in Libia dove scompaiono per sempre in campi di lavoro nel deserto. Recentemente altri 250 eritrei, in fuga dalle persecuzioni subite nel proprio Paese, sono stati rinchiusi nella prigione libica di Brak in gravissime condizioni di detenzione. Il 23 dicembre 2009 la U.N. Security Council, con la risoluzione numero 1907, ha accusato l’Eritrea di armare i terroristi somali di Al-Shabab e Hizbul Islam e di sostenere Al-Quaeda. L’O.N.U. ha sanzionato l’Eritrea con un embargo, peraltro parziale, all’acquisto di armi. L’O.N.U., la Croce Rossa Internazionale, l’Associazione per la Tutela dei Diritti Umani del Popolo Eritreo, Amnesty International, Human Right Watch e Reporters Without Borders hanno fatto appello alla comunità internazionale affinché il regime eritreo cessi la sua politica repressiva e di sostegno al terrorismo islamico. Nonostante tutto ciò il governo italiano intrattiene ottimi rapporti con Isaya Afawork e il suo regime. Isaya è ottimo amico del premier Berlusconi e va spesso in vacanza in Italia. Il suo regime è finanziato dall’Italia e dalla cooperazione italiana. I suoi collaboratori si sono incontrati con i nostri ministri e politici anche dopo l’erogazione delle sanzioni O.N.U..
A Nairobi in Kenya, a fine agosto 2010, sono state trovate borse con mappe di attentati terroristici e arrestati una dozzina di uomini che progettavano di commettere attentati. Tra gli obiettivi c’era anche l’International House, il grattacielo che ospita una radio somala, diverse rappresentanze internazionali, la Cooperazione Italiana allo Sviluppo e l’Ambasciata d’Italia a Nairobi. Stupisce che il governo della Repubblica Italiana, cioè di una nazione europea che si definisce liberale e democratica, abbia per amici regimi dittatoriali e che tali amicizie non portino ad alcun risultato utile per il popolo italiano come si è visto nel caso dei pescatori di Mazara del Vallo mitragliati dai libici in acque internazionali.
E’ evidente che quando una politica estera è così fragile, ingiusta e ambigua la nazione che la produce non può sperare di ottenere risultati utili nè per i propri cittadini, nè sul piano di una strategia che sia vincente in ambito internazionale. L’Italia ha bisogno di relazioni forti con i Paesi arabi e africani per ragioni culturali, sociali ed economiche e questo vale, a maggior ragione, per due delle sue ex-colonie come la Libia e l’Eritrea. Ma l’Italia non dovrebbe mai venir meno al perseguimento degli interessi nazionali e ai principi liberali su cui è basata la sua identità storica e costituzionale.

24 giugno 2010

Un Mondiale di calcio è un’ottima occasione per studiare umori, razzismi e relazioni di amicizia tra i popoli. Anche se non lo dicono, i francesi detestano gli italiani che ricambiano l’antipatia, ditemi quale italiano non ha goduto per l’eliminazione della Francia in Sud Africa e quale francese non ha gioito ai gol slovacchi di questa sera. I giornali tedeschi ignominiosamente scrivono degli italiani, “Mafia e spaghetti”, ma in realtà “rosicano”; in effetti avevo 15 anni quando l’Italia capitò in semifinale con la Germania e vinse 4 a 3 a Città del Messico in una partita che facemmo di tutto per perdere, ma che era impossibile non vincere visto che eravamo nettamente superiori. Sfido un solo 60enne a dirmi che non si ricorda il quarto gol dell’Italia, di Rivera, splendida pennellata alla destra del portiere tedesco. I tedeschi li incontrammo ancora nella finale di Spagna ’82: finì 3 a 1 per noi e sbagliammo pure un rigore con Cabrini, c’erano i mitici Tardelli, Bruno Conti, Paolo Rossi… Anche a Berlino nel 2006, in uno stadio tutto rosso, giallo e nero, ci giocammo la semifinale con la Germania: tempi supplementari e 2 a 0 per noi, Grosso su assist di Pirlo e, subito dopo, Del Piero. I Mondiali sono come la Prima Comunione, la laurea, il matrimonio e l’acquisto della casa, scandiscono la vita e non ho mai capito tutti i radical-chic che ti considerano matto se accenni con nostalgia a Domenghini e Riva. Anch’io, se c’è l’amore di mezzo, non guardo la partita e mia moglie può testimoniare che, in vacanza in montagna, preferii andare a cena fuori, passare la serata con lei, e sapere il risultato della finale Italia Brasile del 1994 la mattina seguente.
Quest’anno il Mondiale dell’Italia è andato male, anzi direi che è andato “all’italiana”.
Prima di tutto, fedele alla faciloneria che caratterizza l’identità nazionale, Lippi ha fatto lo stesso errore di Bearzot nel 1986. Si è affidato, specie per la difesa della squadra, ai campioni del 2006: Cannavaro, 37 anni, per tre partite di seguito è stato una vera tragedia e ha fatto fare la figura dei fuoriclasse a giocatori sconosciuti. Molti dei prescelti da Lippi erano, si può ormai usare il passato, della Juventus, ben 9 giocatori nonostante la Juventus abbia fatto un pessimo campionato. Qui entra un altro problema nazionale, la convenienza, il conflitto di interesse, il gioco della lobby da privilegiare a scapito dell'interesse comune. Poiché Lippi è stato a lungo l’allenatore della Juventus, e probabilmente lì tornerà, ha pensato bene di ignorare i calciatori delle altre squadre.
Il terzo aspetto che colpisce: dopo i primi due penosi pareggi Lippi dichiara: state tranquilli, “non è la mia ultima partita in azzurro”, dice che "nel 1982 l’Italia passò il primo girone con tre pareggi e poi vinse il Mondiale". Non dice che cosa non ha funzionato nelle prime due partite, non conduce analisi, non descrive rimedi, per lui va tutto bene, “adesso viene il bello”, afferma prima della partita con la Slovacchia.
In sostanza, si affida alla buona sorte, altra malattia nazionale. Noi Italiani sappiamo, se studiamo la storia, che cosa è successo quando ci siamo affidati alla sorte: l’8 settembre, la Grecia, Adua, Lissa, Custoza, Caporetto…
Tutte occasioni in cui la faciloneria si è mischiata alle convenienze personali di re e generali. E, non disponendo di altre armi, ci si è affidati alla buona sorte.
Un quarto punto da considerare è che per un italiano non c’è peggior nemico di un altro italiano. Lo impariamo dalla storia del passato e del presente, dalla politica, anche dallo sport.
Io ho un amico interista che tifava per la Slovacchia. Sulla Lega, su Bossi e su radio Padania che tifano sempre per gli stranieri e sono sempre contro l’Italia ci sarebbe da fare un lungo discorso. Loro sono al Governo della Repubblica Italiana e contemporaneamente all’opposizione; loro sono Ministri ma non vanno al 2 giugno; loro prendono i propri lauti stipendi da ministro, onorevole e senatore dall’Italia, ma sono contro il tricolore; loro siedono sugli scranni di Palazzo Montecitorio e Palazzo Madama e portano la cravatta e il fazzoletto nel taschino di colore verde. Sono, spero che almeno se ne rendano conto e comincino ad averne vergogna, la quinta essenza della peggiore “meridionalità”. Se mai esistesse un carattere del genere, sintetizzato dall’immagine simbolo del “piede in due scarpe” o dell'Arlecchino servo di due padroni, l'attore fisso sarebbe un politico della Lega Nord pronto a salire sul carro di chi vince in qualunque occasione (perchè nel 2006 eran tutti tifosi d'Italia?), pronto a dire una cosa e a farne un’altra pur di mantenere il potere, col fazzoletto verde o il tricolore a seconda di cosa conviene e di chi paga, un settentrionale che non si rende conto di aver perfino smarrito la squisita civiltà del suo stesso Nord. Che preferisce strillare il “celodurismo” da stadio invece di capire il Paese complesso che dovrebbe amare e nel quale vive. L'Italia è per sempre. Invece Destra e Sinistra storiche, fascismo, DC, PCI, Berlusconi e Lega durano una stagione e finiscono.
Del resto anche nel tifo calcistico gli italiani si distinguono. Quando l’Inter ha giocato in Coppa Campioni contro il Bayern metà Italia tifava per il Bayern, lo stesso facevano gli interisti quando giocavano la Roma, il Milan o la Juventus. Sono l’unico tifoso italiano che non tifa mai contro, che è sempre per le squadre italiane di qualsiasi città e ovunque esse giochino. Al massimo nutro qualche simpatia in più per le piccole provinciali dove il calcio è ancora passione e le squadre non si costruiscono con i soldi di Agnelli, Berlusconi e Moratti, ma questo è un altro discorso.
Un'ultima considerazione: tutte le squadre hanno decine di giocatori stranieri naturalizzati, o immigrati che sono diventati "nazionali". Ne ha sempre avuti la Francia, e l'Inghilterra, ora li ha anche la Germania con l'attacco polacco e il centrocampo turco. Noi di questo fenomeno che fa più forte ogni squadra non ce ne siamo neanche accorti. Thiago Motta, il fortissimo difensore dell'Inter, è cittadino italiano da 4 anni e ha dichiarato, naturalmente prima del Mondiale, "Sarei felice di giocare nell'Italia di Lippi".
A me sarebbe piaciuta la coppia Okaka - Balotelli almeno in panchina.
Lippi ha sbagliato su tutto ed è giusto che oggi si dica con chiarezza, ma molti sarebbero saliti sul suo carro, come nel 2006, se solo avesse vinto.

Consoliamoci con i gol di Quagliarella e Di Natale. Splendidi.
All’italiana...

28 maggio 2010

Maschio e Femmina in Africa.



Mutande

A casa di Nenella, dove abbiamo passato gran parte dell’autunno africano, vige la regola che il personale di servizio non lava le mutande da donna. Ne derivava il fatto che non disponendo ancora di una collaboratrice familiare e non potendo chiedere aiuto a mia moglie, occupata dal suo lavoro a tempo pieno, o a mia figlia, perché è una bambina piccola, il compito toccava a me.
Senza dilungarmi in dettagli scabrosi posso dire che lavare le mutande delle ragazze presuppone già una certa dose di applicazione e buona volontà, ma arrivavo alla fine del compito abbastanza agevolmente.
Il problema era quando con una dozzina di capi di abbigliamento intimo femminile dovevo recarmi alla zona dello stenditoio attraversando tutto il giardino della bella casa in stile coloniale. I fili per i panni erano posti esattamente davanti agli alloggi del personale. Notai subito lo sguardo di aperto disprezzo e penosa commiserazione con cui mi guardavano i due giardinieri, i due guardiani, il cuoco. Né le cose andavano meglio con le domestiche che mi regalavano espressioni sufficienti di incredulità.
La situazione era aggravata dal fatto che i fili sporchi andavano puliti e mancavano sempre le mollette: la precarietà della situazione, tipica di una casa in Africa, rendeva più penosa la mia performance come stenditore.
Inoltre, sottoposto allo sguardo fisso di tutte quelle persone, non riuscivo a sottrarmi a qualche imbarazzo soprattutto quando sul filo appendevo qualche slip di pizzo o di seta, pieno di fiorellini a colori o nastrini civettuoli. “Che penseranno di noi?” Pensavo guardando quelle incarnazioni vaporose della vanità femminile. Il peggio era quando il giardiniere più antipatico vedendo che avevo esaurito le mollette me ne porgeva una prendendola dal retro del magazzino e si ritraeva subito come per dire “io con questa cosa che stai facendo non c’entro nulla”.
Io, un po’ schizzinoso, pensavo invece alle sue mani non pulite e guardavo con scetticismo la molletta. Pareva brutto rilavarla?
Quando cadeva uno slip sulla terra rossa tutti stavano lì a guardare che cosa avrei fatto: la sciacqua? come la sciacqua? dove la sciacqua? Ogni mio gesto era seguito con somma attenzione.
Imparai a uscire per stendere le mutande quando non c’era nessuno, verso le 3.00 del pomeriggio col sole a picco, e Raja, l’ospite indiano che lavora all’ONU, mi faceva da “palo” e mi diceva quando erano tutti fuori per servizio.
Ridevamo tutti e due e sgattaiolavo rapido verso i fili dei panni, ma poi scoprivo che eran tutti là, appiattiti sotto l’unico filo d’ombra dietro al caseggiato ad aspettare il rito pomeridiano delle mutande stese.
Piano piano iniziai a fregarmene dei loro sguardi di commiserazione e presi a guardare tutti negli occhi orgoglioso del mio lavoro di marito fedele e padre premuroso. Non mi sentivo meno maschio tosto solo perché stendevo slip rosa neri e bianchi col fiocchetto di lato.
Alla fine era diventato un piacere andare a stendere i panni perché mi permetteva di osservare gli altri, di vedere che cosa sarebbe successo ogni volta e di guardare, come fa un antropologo, le persone intorno a me e le loro reazioni.
Anche a casa mia, adesso che ho una casa definitiva, devo vincere l’incredulità della ragazza che ci aiuta in casa quando dico che cucino io, che non si deve preoccupare del pranzo e della cena.
In giardino le donne di servizio dei nostri vicini di casa indiani mi guardano con incredulità quando mi vedono passare il sapone sui colletti delle camicie più delicate che Cristina, non avendo tempo, mi affida.
Anch’io vorrei più tempo per studiare e scrivere i miei saggi, ma mi sacrifico per il bene della famiglia. Le diverse forme di lavoro domestico sono sempre state intercambiabili nella mia famiglia e quello che conta per noi è il bene comune, la gioia di vivere insieme e rinnovare ogni giorno il miracolo dell’amore.

Donne e uomini in Africa

Il concetto di matrimonio in Africa è molto diverso e l’idea di virilità in questo continente non permette ad un uomo di lavare gli slip della donna che ama.
Molti uomini che lavorano ogni giorno a Nairobi non si portano dietro un panino da mangiare nella pausa-pranzo della giornata di lavoro. Se non si siedono ad un bar e non c’è una donna a servirli non è pranzo, secondo loro. Molte cose in Africa non cambiano mai perché la condizione di servitù che vivono le donne permette a ogni uomo, anche al più povero e scannato, di sentirsi un re quando torna a casa.
Le donne sono semischiave, tolgono le scarpe al marito di ritorno a casa, lo lavano, gli servono il cibo e spesso non mangiano con lui, ma da sole in un luogo relegato della casa. Spesso subiscono le violenze del marito, sono battute e stuprate senza che questo costituisca motivo di denuncia alla polizia soprattutto nelle regioni rurali.
In molti Paesi africani le bambine subiscono diverse mutilazioni sessuali. Una è l’infibulazione, cioè la cucitura/chiusura della vagina con ago e filo, al fine di “preservare” la verginità della ragazza fino al giorno del matrimonio. Un’altra è la clitoridectomia, cioè l’asportazione totale della clitoride, al fine di ridurre drasticamente il piacere sessuale della ragazza e il suo desiderio di erotismo. Molto spesso le due operazioni sono fatte insieme, una non esclude l’altra. Sono condotte senza il rispetto di alcuna norma d’igiene e senza alcuna anestesia, spesso finiscono in setticemia con la morte della bambina e, per tutte quelle che sopravvivono, il dolore non cessa con la fine dell’intervento e gravi sono i disturbi e i dolori acuti anche a distanza di anni.
L’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che il fenomeno è diffuso in varie regioni del mondo, ma in Africa assume proporzioni drammatiche.
Sono mutilate il 97% delle ragazze in Egitto, 99% in Guinea, 92% in Mali, 89% in Eritrea, 90% in Sudan, 80% in Etiopia, 71% in Mauritania, 32% in Kenya, 18% in Tanzania e mancano i dati sulla Somalia dove si presume le FMG (Female Genital Mutilations) siano altissime.
La pratica delle mutilazioni, in queste regioni, fa parte indifferentemente del mondo islamico, cristiano o animistico. Inoltre sono le stesse ragazze a richiedere tali interventi che hanno spesso un carattere fortemente ritualizzato e iniziatico e costituiscono un momento importante della vita della ragazza, della famiglia e della comunità. Le adolescenti dicono: “l’ha fatto mia nonna, l’ha fatto mia madre e lo farò anch’io”. Senza il “rito della mutilazione”, che è spesso vissuto con un misto di gioia e rassegnazione dalle ragazze, il matrimonio non è consentito e l’ingresso nella società rimane precluso. E’ evidente come tali interventi sottintendano un carattere ricattatorio nei confronti delle giovani africane: ”se non stai alle regole sei espulsa dal villaggio, non sarai mai una donna, sei morta, appestata, nessuno ti vorrà”.
Ho parlato con centinaia di donne del problema e, escluse le giovani studentesse di città che sono le uniche a vivere in famiglie che non seguono tali “tradizioni”, tutte ritengono sia un problema della società occidentale, non loro; si rifiutano di cambiare cultura e ci propongono sostanzialmente di occuparci d’altro.
In un contesto del genere sono destinate all’insuccesso tutte le politiche imposte dall’esterno che non siano il prodotto di un confronto nuovo sui ruoli sessuali in Africa, sulla formazione della famiglia, sulle libertà all’interno del matrimonio e sui diritti nella società civile.
Molte ragazze da me intervistate, insieme ai loro genitori, pensano che sia una forma di colonialismo voler imporre la nostra cultura europea e “occidentale” alle loro antiche tradizioni.
E’ evidente anche l’incapacità del femminismo europeo e americano contemporaneo nel dare chiavi di lettura del fenomeno che viene descritto come una barbarie, e senz’altro lo è, ma non viene studiato nelle sue implicazioni sociali, religiose e culturali.
Anche le femministe africane sembrano ricalcare le politiche delle loro sorelle occidentali e il loro apporto è prevalentemente finalizzato ad una crescita del peso intellettuale delle donne nel continente.
Le donne africane, dimenticate dal mondo intero, continuano a svolgere tutti i lavori più pesanti e non sono pari all’uomo neanche all’interno del matrimonio. Gli uomini africani praticano largamente la poligamia con il consenso delle loro stesse donne e con l’appoggio delle istituzioni. Quello che conta per un uomo è disporre del denaro per convincere i genitori di una ragazza a concederla in sposa.
L’early marriage, cioè la bambina data in sposa da piccola a prescindere dal suo consenso o dalla sua capacità di capire qualcosa, è purtroppo diffusissimo. Così vengono “vendute” bimbe di 6, 8, 10 anni.
Nelle regioni rurali l’accordo di matrimonio prevede il pagamento in beni naturali: bestiame, in genere.
Ad Aora Chiodo, regione South Nyanza, in Kenya, vive Mzee Ancentus Akuku, 90 anni. Ha sposato la prima moglie nel 1939. Nel 1950 aveva 18 mogli. Nel corso degli anni ne ha sposate 130, 85 le ha tenute, 45 le ha cacciate. Ha dichiarato di non essere mai stato uno di quelli che paga una o due mucche soltanto, lui pagava diciotto o venti mucche ad ogni matrimonio, è un uomo abbastanza ricco. E’ affetto da HIV.
La descrizione di una buona moglie fatta da un uomo africano di una regione rurale assomiglia alla figura di una serva/schiava/badante: “deve fare figli possibilmente maschi, portare acqua e legna, cucinare, cambiare i panni ai bambini, pulirmi dai pidocchi, lavarmi i piedi”.
Soltanto nelle grandi città l’emancipazione delle donne è andata avanti e ha permesso, ma solo all’interno delle classi sociali più elevate, una forma diversa di relazione tra uomo e donna, ma anche in città sono numerose le donne che tentano di “sfuggire” ad un nuovo matrimonio dopo essere state abbandonate dal primo compagno o marito.
Per intervenire sull’educazione bisognerebbe investire nelle scuole. In Africa, dove più del 60% della popolazione è sotto i 21 anni, le scuole sono poche e non hanno docenti in numero sufficiente.
Le classi delle scuole elementari possono essere costituite da 80 o 90 bambini e i maestri, pagati poco, si limitano a dare ordini e ad insegnare qualche rudimento a memoria.
Le buone scuole superiori, tutte private e quasi sempre straniere, sono solo per i figli degli espatriati bianchi e dei ricchi figli di ministri e imprenditori.
Le Università versano spesso in uno stato di degrado e abbandono e chi può va all’estero a studiare, quasi sempre nel Paese che in passato ha avuto il ruolo della potenza che ha colonizzato e depredato.

Cartelli

A Mombasa, nel dicembre 2009, ho visto un cartello stradale gigante. C’era un uomo, dall’aspetto comune, ma abbastanza distinto e la scritta: “Sono un buon padre di famiglia e ogni tanto faccio il test dell’HIV” Cioè, come dire, si dà per scontato che un uomo si trastulli con tutte le donne che desidera, ma insomma, signori uomini, se siete dei padri responsabili fatevi il test ogni tanto così, forse, non impestate le mogli!... Se questa è la Pubblicità Progresso in Kenya le mogli si possono rassegnare!
A Nairobi, marzo 2010, altro cartellone gigante a Giggiri: “Investire nell’educazione delle bambine significa fare la società!” So che il cartello voleva dire: mandate le figlie a scuola, non lasciatele a “fare la calza”, però il messaggio può risultare ambiguo. L’accento posto sull’educazione femminile sembra trascurare il fatto che, in tutta l’Africa, siano proprio i maschi a dover ricevere un’educazione nuova e di segno radicalmente diverso. Non si potrà mai cambiare la condizione delle donne se non si cambiano i pregiudizi maschili sulle donne.
La causa prevalente dell’insuccesso scolastico dei giovani maschi a scuola è il “Machismo” stesso. Quando insegnavo ad Addis Abeba seguivo con altri colleghi il progetto sperimentale dell’Istituto “G. Galilei”. Avevo l’incarico di monitorare la crescita educativa e cognitiva degli allievi delle Scuole Italiane dalla Elementare al Superiore. Molti bambini etiopici apparivano eccellenti alla scuola elementare e alla scuola media anche se già all’ultimo anno della media qualcosa cambiava in peggio. Improvvisamente i maschi non facevano più domande al professore, non intervenivano più a discussioni sulla letteratura o la poesia, si sottraevano al dialogo educativo. Alla domanda “Perché?” rispondevano che erano cose da femmina, che gli uomini non parlano di poesia, letteratura o arte. Che la scuola, in fondo, non è importante. Al modello della maestra subentrava il modello maschile costituito dall’austero padre, dai fratelli più grandi, dagli amici del padre e dei fratelli.
Sono stati pubblicati studi nel Regno Unito che coincidono con le mie osservazioni e segnalano lo stesso fenomeno per i figli dei Pakistani e degli immigrati delle fasce sociali più basse. Ottimi nella Primary School i figli di asiatici e africani poveri non studiano più al superiore. Non è così per le ragazze, in Inghilterra come in Africa, che con più forti motivazioni di riscatto sociale continuano nel loro impegno, anzi lo accrescono consapevoli del fatto che solo attraverso lo studio potranno trovare un posto di lavoro e una maggiore autonomia dai maschi.
Del resto si deve considerare la cultura d’origine rurale di molta gioventù maschile in Africa. Quando si chiede ai pastori Turkana chi è “un vero uomo” la risposta che danno più frequentemente è: “un vero uomo è colui che uccide il suo nemico”; la seconda risposta è “uno che fa razzie e cattura il bestiame”.
Con un’impostazione culturale dì siffatta specie è difficile pensare di inviare i bambini a scuola e farli studiare arte e filosofia.
I maschi africani assomigliano a quello che erano i maschi italiani di una volta. Tramontato il mito del latin-lover molte signore americane ed europee, italiane comprese, cercano avventure con i beach boys delle località di mare in Kenya: i ragazzi scambiano le loro prestazioni sessuali con i soldi, la promessa di un matrimonio, la dubbia ascesa sociale coincidente con il rituale “viaggio-premio” in Europa.

7 maggio 2010

In Italia le cose vanno bene. In Italia le cose stanno andando veramente bene. La crisi greca ci fa un baffo. Gli incentivi all’economia funzionano bene e così anche io ho deciso di comprare casa. Infatti con le ultime misure prese dal Governo quando compri casa non sai neanche chi te la paga, arrivano mazzette di assegni circolari e si fa il rogito dal notaio che neanche te ne accorgi ed è un piacere. Non ho ancora capito se chi paga la casa sceglie il posto o se il luogo dove comprare la casa posso anche deciderlo io, in tal caso mi piacerebbe una bella vista su un monumento storico. Ne sto parlando con un amico che fa l’insegnante, che ha un mutuo da pagare di circa mezzo secolo, e dice che un’ottantina di assegni circolari li accetterebbe anche per uno scantinato in periferia, figurarsi in centro. Non so se tutto ciò rientra nel famoso piano casa, in Italia esiste l’interpretazione: le leggi vengono fatte, ma poi vengono sempre interpretate e le interpretazioni sono sempre infinite. Ho detto al mio amico che sicuramente qualcuno pagherà il suo mutuo. Volete sapere chi pagherà il suo mutuo? Vorrei saperlo anch’io.

27 aprile 2010

I siti consigliati oggi.
E’ la migliore agenzia di stampa sull’Africa e sul mondo in lingua italiana. E’ gestita dai Missionari sparsi in tutto il pianeta:
http://www.misna.org/

E’ il sito di Matteo Fraschini Koffi e parla di Africa e africani:
http://www.matteofraschinikoffi.com/

Reporter senza Frontiere, in lingua inglese:
http://en.rsf.org/

Reporter senza Frontiere Sezione Italiana, in lingua italiana:
http://rsfitalia.org/

Il sito del Perigeo parla delle attività che in Etiopia svolge il missionario francescano Padre Angelo Antolini e di iniziative culturali e umanitarie in tutto il mondo:
http://www.perigeo.org/

22 aprile 2010

Ogni anno l'autorevole organizzazione Reporter senza Frontiere compone la classifica della libertà di stampa nei vari paesi del pianeta.
Nel 2009 il paese più libero è stato la Danimarca, al secondo posto la Finlandia, poi l'Irlanda, la Norvegia e la Svezia: tutti paesi liberi dove i giornalisti e i bloggers fanno il loro lavoro in libertà e senza pressioni.
Complimenti a queste libere nazioni e ai popoli che le compongono.
Poi iniziano i problemi.
Al diciassettesimo posto il Giappone, al diciottesimo la Germania, al posto 21 la Gran Bretagna e al 22 gli USA, al 33esimo posto il Sud Africa, la Francia 43, la Spagna 46.
L'Italia è al posto 49 appena prima di Romania, Cipro, Maldive e Mauritius.
Non c'è alcun commento da fare.
Agli ultimissimi posti l'Eritrea, l'Etiopia, l'Egitto, l'Azerbaigian, il Congo, l'Algeria, l'Irak, il Sudan, l'Afganistan, l'Iran, la Somalia. In molti Paesi giornalisti e bloggers sono detenuti senza processo con la scusa che svolgono attività sovversive, vengono minacciati, perseguitati, assassinati.

19 marzo 2010

Slums a Nairobi

18 marzo 2010

A Mukuru arrivo in 25 minuti di taxi. Dopo l'area industriale, qualche chilometro fuori Nairobi, dopo Lunga-Lunga Road, siamo arrivati. Io e Martina, la mia accompagnatrice irlandese, salutiamo il chairman dello slum. Visito il Centro fondato da Martina qualche anno fa: una piccola scuola per parrucchieri, un cortile per accogliere i bambini dei genitori che lavorano, un minuscolo laboratorio informatico. Il Centro è circondato da alte lamiere. Per arrivarci cammino su passaggi stretti mezzo metro, un metro, tra una baracca e l’altra. Bambini ovunque, mamme che cucinano il pranzo, qualche uomo seduto davanti casa, alcuni banchi che vendono cibo appena cotto, pannocchie di mais abbrustolite, ugali e verdura. Incontro il Glorious Hotel, dormire costa 100 scellini (un euro), le lamiere sono dipinte di rosa pallido. C’è la Top Life Butchery, dall’odore inconfondibile, l’Eden Gift Shop, per chi si sposa, il Little London Market e il Paradise Luxury Pub che ha due tipi di soft drinks. C’è anche una scuola guida, non ha l’automobile, ma i segnali stradali sono chiaramente dipinti sulla lamiera color turchese. Due settimane fa sono arrivati dalla Municipality e hanno raso al suolo un migliaio di baracche con le ruspe perché qui deve passare l’oil pipe line tra l’Uganda e Mombasa, della Tamoil, proprietà libica, con il sostegno dell’ENI che si incaricherebbe della raffinazione del petrolio estratto in Uganda nell’Albertine Rift. Cammino sul cemento delle baracche distrutte o abbandonate. Pochi sono tornati ai villaggi d’origine in campagna. La maggior parte è rimasta da parenti che vivono nello slum e che si sono stretti per far posto ai nuovi arrivati senza casa. La gente è furiosa perché ha perso il lavoro avviato e dopo la demolizione è rimasto un buco enorme, un vero boulevard che rende possibile lo "struscio" e una visione panoramica e profonda dello slum. La Kenya Power denuncia che lo slum usa l’elettricità illegalmente. Anche l’acqua è illegale ed è gestita da un cartello locale che la vende a 5 centesimi di Euro ogni 20 litri. I tubi sono interrati, ma il passaggio di camion e altri mezzi pesanti li ha fatti emergere e in molti punti appaiono sconnessi. Difficile pensare che l’acqua arrivi pulita anche perché sulla strada passano i canali di scolo che partono dalle baracche e si versano ovunque. Comunque per riempire una tanica da 20 litri passa mezz’ora. Non ci sono ospedali, ambulatori, medici, non c’è nessuno. C’è un bell’odore di merda. Anche le due scuole private sono circondate dalle fogne a cielo aperto. La grande maggioranza della popolazione di Mukuru non si può permettere di inviare i figli a scuola: si pagano 500 scellini (circa 5 euro) al mese per ogni bambino e sono pochi i genitori che possono pagare una cifra del genere. Proprio accanto alle due scuole, dove giocano i bambini, passa la ferrovia e ogni tanto qualche bambino finisce sotto un treno merci. Sono molti i bambini che si perdono o vengono rapiti e portati via perché i genitori che lavorano non possono proteggerli o li abbandonano. La stragrande maggioranza della gente di Mukuru non ha i soldi per mangiare. Andiamo a trovare una signora che dopo aver fatto la scuola di Martina ha aperto un “salone” da parrucchiere. Ci accoglie con orgoglio ed è visibilmente contenta. Un cliente si taglia i capelli per 20 centesimi di euro nel salone che è 2 metri per 1 di lamiera ondulata. Comprese nel prezzo ci sono le pillole per il mal di testa o il mal di pancia. Sono tentato anch’io di farmi un bel taglio, anche perché quelli delle ruspe torneranno, il salone ha i giorni contati. C’è un bel traffico di gente, chi vende pomodori, chi coltelli, molti fanno affari, chiacchierano, nessuno ci disturba, nessuno ci rivolge la parola. Mukuru è nato 35 anni fa ed ha circa 500.000 abitanti. Le baracche di 4, 5 o 6 metri quadrati ospitano 7, 8, 10 persone. Non ci sono bagni, servizi igienici, niente. Molti abitanti di Mukuru vengono da regioni in guerra: hanno perso tutto. Altri sono rifugiati che non hanno mai conosciuto altro tipo di vita: in fuga continua da un luogo all’altro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA PAOLO GIUNTA LA SPADA

12 febbraio 2010

In Italia la colpa è del dottore.

In Italia succede spesso che ci siano degli scandali.
Hanno rubato miliardi ai tempi di Tangentopoli, prima di Tangentopoli e dopo Tangentopoli. La società italiana sembra malata di questo cancro di disonestà e corruzione che non si riesce a curare.

Se un dottore dicesse che hai il cancro e che ti devi fare la chemioterapia, facendo le corna da bravo italiano, sarebbe difficile prendersela con il dottore. Il cancro è cancro e va curato seriamente. Va tolto, eliminato, disintegrato, per guarire. Io, dall’Italia, vorrei eliminarlo. Mi secca molto quando parlando con gli stranieri mi dicono “Italiani: mafia”.

Ma in Italia non la pensano così: se l’Italia ha il cancro la colpa è del “dottore”, cioè dei magistrati che scoprono il ladro dei soldi che appartengono allo Stato, il ladro di quell’Italia che tutti dicono di amare, ma che pochi amano veramente e tanti sfruttano e infangano. In Italia la colpa è del dottore che scopre il cancro. Quanto alla cura nessuno ne vuole sapere. Teniamoci il cancro, sembrano dire molti italiani che col cancro convivono benissimo. Del resto si sa, in Italia si mangia bene, il clima è buono (beh, se si escludono questi giorni di metà febbraio), gli italiani sanno come arrangiarsi e tutti “tengono famiglia”.

Oltre al “dottore” un altro che in Italia non va tanto bene di questi tempi è il giornalista che vuole fare il mestiere di giornalista, cioè il mestiere di chi scrive senza chiedere il permesso ai potenti e senza pensare cosa può dispiacere al potente (la famosa autocensura).
I giornalisti in Italia hanno problemi se non sono d’accordo con i potenti.
I giornalisti spesso stanno dalla parte di chi li paga meglio. Mica solo soldi: benemerenze, direzioni di giornali, fondazioni, trasmissioni RAI e Mediaset, amicizie, titoli e favori.

La figura che più va di moda oggi in Italia, invece, è quella che una volta gli inglesi chiamavano educatamente “the good-time girl”, recentemente nota anche come “escort” che in italiano si potrebbe tradurre con “ragazza antistress”, visto che si occupa prevalentemente di “massaggi anti-stress”.

E così, tra una ruberia e una ragazza antistress (ma c’è anche chi preferisce i travestiti) stanno distruggendo l’Italia di Garibaldi e Mazzini, di Verdi e Marconi, di Rosselli e Pertini, di Mattei e Falcone. Stanno distruggendo l’Italia nostra, questo Paese che amiamo e veneriamo con passione da quando ci siamo nati, cresciuti, vissuti, da quando abbiamo respirato i suoi mali, ma anche tutte le sue bellezze e la sua forza, le sue tradizioni e la sua unicità, l’italianità di cui siamo orgogliosi protagonisti e testimoni e senza la quale il mondo non sarebbe più lo stesso.

Quel che sembra contare oggi sono solo i soldi non importa fatti come oltre alle immancabili good-time girls.
Tutti d’accordo, felici e contenti, dunque? Voi che ne pensate?

Mio padre che ha 96 anni e ne ha passati 43 nell’Arma dice di non aver mai visto tempi più balordi.
Come dargli torto?
© RIPRODUZIONE RISERVATA PAOLO GIUNTA LA SPADA
Scrivete a:
paologls@yahoo.it

5 febbraio 2010

Le Terre di Nessuno.



La teoria delle macchie di leopardo.

Se vai a New York o a Los Angeles, nel cuore più ricco del pianeta, ci sono quartieri dove non si può andare, è pericoloso, ti sgozzano o ti derubano, soprattutto di notte. Nel 1993 a San Francisco, per andare al cinema, ho attraversato inavvertitamente a piedi un’area che l’albergatore definì “dei tagliatori di fegato”. Avevo visto brutti ceffi, ma mi era andata bene e mi aveva aiutato l’abito non lussuoso e il mio passo, come sempre ampio e veloce. Queste città hanno un tessuto urbano “a macchia di leopardo”: in alcuni posti puoi andare, in altri non è raccomandabile. Lì c’è un quartiere residenziale, dietro c’è un quartiere povero e pericoloso, là un centro di lusso e dietro il sobborgo dei poveri, non c’è una divisione netta e globale, c’è un tessuto a “macchia di leopardo”, a volte basta percorrere un isolato in più per entrare in una zona “proibita”. Il modello “americano” è largamente presente in Africa in una variabile peggiorata. Nelle metropoli africane gli slum circondano i quartieri della classe media, le discariche ingoiano le aree una volta popolate dagli impiegati. I ricchi vivono nei loro verdi quartieri sempre più protetti come a Johannesburg, Lagos o Nairobi: cancelli chiusi, filo spinato, electric fence sui muri di cinta, panic button nelle case collegate alle agenzie private della sicurezza. A Nairobi, in Kenya, dietro il quartiere residenziale e lussuoso di Loresho c’è un piccolo slum di due o tremila persone; dietro la lussuosa scuola Braedburn a Lavington c’è un altro slum; non molto lontano da Karen-Langata, l’area immersa nel verde dove visse Karen Blixen, c’è Kibera, uno slum di un milione di abitanti che ogni giorno cresce di qualche metro.

Applicate la teoria delle “macchie di leopardo” al pianeta. Se entrate nel sito del Ministero Affari Esteri, nelle pagine dedicate agli avvisi rivolti ai viaggiatori italiani in partenza, scoprirete che non si può andare o è “fortemente sconsigliato” recarsi in molti posti del mondo e che tali luoghi sono il doppio, il triplo o il quadruplo di quelli che erano segnalati 20, 30 o 40 anni fa. Alla fine degli anni ’70 si andava dall’Italia all’India in pulmino o da Il Cairo a Capetown con mezzi locali. Erano avventure, ma si facevano, abbiamo fatto quelle traversate che duravano mesi come migliaia di altri turisti e viaggiatori dell’epoca. Oggi è impossibile. I posti dove non si può andare crescono, si sviluppano, aumentano. Le macchie di leopardo diventano sempre più grandi e finiranno per “ingoiare” il resto del mondo. Finora le società ricche hanno considerato le guerre in Africa e in Asia come qualcosa di molto lontano, che non riguarda il mondo moderno. Voglio mettere in guardia da tale atteggiamento.

Le Terre di Nessuno

Quando c’è la guerra si scappa. Nel nostro pianeta esistono zone molto sicure, altre poco sicure e altre ancora dove le guerre e i conflitti rendono la vita impossibile. Tutti conosciamo il fenomeno dell’emigrazione che segue un conflitto armato: quando c’è la guerra la gente scappa, si mette in salvo, cerca un altro posto dove vivere. In Africa, e nel Corno d’Africa in particolare, la situazione è grave al punto in cui una larga fetta di territorio risulta estremamente insicura: la gente non ci può vivere e scappa.
Guardate la carta geografica dell’Africa. Se congiungete il Darfur con il Sudan meridionale e il Sud Juba, e questo con il Triangolo di Ilemi, con il delta del fiume Omo, il nord Turkana Lake, il nord Marsabit e il deserto del North Horr nel nord del Kenya, l’intera Somalia, più l’Ogaden etiopico, ottenete una fascia di territorio più grande di Francia, Spagna, Portogallo e Italia messi insieme. Una terra infinita dove non esiste alcuno stato, se per stato intendiamo un’organizzazione presente giorno e notte capace di fornire ai cittadini le strutture necessarie alla convivenza pacifica e allo sviluppo sociale, culturale ed economico: non esistono scuole, università, ospedali ben attrezzati (se si escludono quelli, rarissimi, delle organizzazioni umanitarie che lavorano in perenne stato emergenziale). Non c’è elettricità erogata e non si trovano quaderni per scrivere, medicine, garze, disinfettanti o antibiotici. Non c’è acqua buona da bere e l’approvvigionamento dell’acqua, comunque sporca e contaminata dal bestiame, è legato ai pochi borehole esistenti. In tali regioni le donne sono forzate a camminare per 10, 15 ore al giorno per riuscire a riempire un recipiente di liquido per la propria famiglia. Devono passare in luoghi deserti dove sono facilmente preda del primo sbandato che incontrano, di soldati, o di uomini di altri clan che le rapiscono per ridurle in schiavitù. Sono regioni dove nei rari mercati si vendono eclusivamente armi: una mina anti-uomo da uno a cinque dollari l’una, di fabbricazione americana, cinese, italiana, francese, russa, inglese, tedesca; pallottole di vario formato e calibro, fucili e mitragliatori di varia origine; razzi e granate. I pascoli vengono contesi a colpi di mitra AK47 e l’odio per il vicino della diversa etnia è radicale e coincide con la lotta per la sopravvivenza. “Il pascolo vicino all’acqua è mio, grazie ad esso sopravvivo”, dicono i Dassanech, “se lo prendono i Turkana moriamo tutti”. Turkana e Dassanech si scontrano per rubarsi vicendevolmente il bestiame e il territorio. Migliaia di morti ogni mese nelle guerre dimenticate di queste regioni incontrollate e su confini che esistono solo sulle carte politiche degli atlanti geografici. Samburu, Turkana, Pokot, Hammer, Surma, Mursi, Dassanech e molto più a nord i popoli Dinka, Nuer, Zande, le bande di Janawid, più gli eserciti nazionali, le varie bande armate e i gruppi di shiftà si affrontano ogni giorno. Sulla carta geografica queste regioni andrebbero segnate con il colore nero e chiamate Terra di Nessuno perché la guerra impedisce la normale vita civile, gli investimenti economici, l’istruzione, la cultura.

La fuga

Nonostante il continuo sviluppo industriale, il grande consumo di risorse e gli sprechi tipici delle società moderne, la povertà globale, cioè il numero dei poveri in cifre assolute, aumenta. Quando arriva una guerra o una crisi radicale i poveri fuggono perché non hanno niente da perdere. Scappano con i “barconi della speranza” attraverso il Mediterraneo, ricominciano tutto daccapo, pronti ad affrontare la fatica e l’incertezza del viaggio senza ritorno, la fame e l’arsura, le umiliazioni per moglie e figli, il rischio di morire in mare. Nella memoria e nel fondo dei loro occhi ancora accecati dal caldo sole d’Africa c’è l’immagine della capanna incendiata, il villaggio distrutto, le ragazze stuprate davanti ai genitori e ai mariti, le madri violate davanti ai figli, i soldati col pick-up e la mitragliatrice piazzata sopra che non danno tregua, i banditi sempre in agguato. Si lascia un nulla fatto di capanne nel deserto, di pascoli arsi. Ho visitato molti villaggi nel Sud Etiopia, nel Sud Sudan e nel Nord Kenya: nei posti più fortunati e ricchi d’acqua i bambini stanno tutto il giorno su delle piattaforme di legno per scacciare gli uccellini che mangiano il mais, le capanne sono fatte di pochi rami secchi perché ci si deve spostare alla ricerca di pascoli, le mucche sono magrissime. Le tempeste di sabbia non danno tregua. I conflitti con le tribù vicine sono inevitabili. Così molti preferiscono trasferirsi nelle grandi città con il miraggio del lavoro facile. Finiscono per vivere in baracche senza un servizio igienico, senza acqua, senza scuole per i figli, senza medicine, senza un lavoro che non sia avvilimento, prostituzione o schiavitù. Trovano un salario basso che assicura solo la fame e nuovi stenti. A quel punto partono per la seconda volta, ma con destinazione un paese ricco. Lasciano per sempre il vicolo dello slum e la baracca fatta di cartone, polvere e buste di plastica.

Europa e Africa

Se non si studia l’Africa di oggi e non si considerano le guerre africane non si capisce l’emigrazione. Se non si conosce l’emigrazione non è possibile governarla. Integrazione, cittadinanza, repressione della criminalità, rilascio dei visti, respingimenti: sono temi che, se non si studia la realtà, non possono essere considerati con serietà, sono solo spot elettorali. Oggi anche Gesù, da straniero quale era, sarebbe respinto, cacciato, mandato indietro. L’Europa ha colonizzato l’Africa, l’ha sfruttata, schiavizzata ed erosa nelle sue risorse. Oggi appare come colui che non vuole sapere cosa succede al vicino che sente tutti i giorni morire, fino a quando la casa del vicino brucia e scoppia anche la sua. Il mondo globale è un’opportunità per fare business e arricchirsi, ma non ha cambiato la sorte di miliardi di poveri del pianeta. In questi anni, inoltre, siamo silenziosamente passati dalla “guerra alla povertà” alla “guerra ai poveri” condotta su larga scala.

La Madre di tutte le guerre: il Corno d’Africa

Le regioni del Corno d’Africa partono dalla Somalia, la punta e l’estensione orientale massima del Corno. Non è un caso che la pirateria di oggi sia nata ed agisca davanti alle coste somale. I pirati somali hanno sequestrato 300 persone che il mondo ha dimenticato, hanno dodici navi sequestrate nella loro base, detengono capitali immensi nelle banche di tutto il mondo, riciclano i soldi “sporchi” con investimenti legali in tutto il mondo (dal Kenya alla Gran Bretagna), hanno operato 68 dirottamenti solo nel 2009 e lanciano i loro attacchi dal Golfo di Aden alle Isole Seychelles. Nessuno interviene in Somalia per far cessare le loro attività criminali e nessuna grande potenza si è mai sognata di dare un’occhiata al porto di Eyl che è la loro tranquillissima base operativa. Sono passati 23 anni dalla caduta del dittatore Siad Barre: da allora la Somalia non ha più ritrovato un ordine civile o politico o una parvenza di struttura statale. Ci ricordiamo tutti il 3 dicembre 1992 quando la Risoluzione 794 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU imponeva l’invio in Somalia di una forza di pace con il compito di assicurare la distribuzione degli aiuti umanitari e ristabilire l’ordine: c’erano anche gli italiani e le televisioni di tutto il mondo trasmisero quel fatto come un avvenimento epocale. Le truppe americane, sbarcate in forze, furono accusate dai somali di proteggere gli interessi delle compagnie petrolifere Conoco, Amoco e Chevron. La sede della Conoco, all’arrivo dei marines, ospitò il quartier generale dell’Ambasciata USA a Mogadiscio. Le truppe ONU non riuscirono a mettere pace in Somalia, né a sconfiggere le bande armate che infestavano il territorio. Gli americani subirono pesanti sconfitte sul piano dell’immagine politica e militare e il 3 marzo 1995 tutte le forze di pace dell’ONU abbandonarono la Somalia senza aver raggiunto alcun risultato. Molte regioni somale (Somali Land, Punt Land, Juba Land, Galmudug) iniziarono a chiedere l’autonomia o l’indipendenza da Mogadiscio. Sorsero movimenti armati che tentarono di occupare il vuoto politico esistente nel Paese e rivendicarono la propria identità etnica, religiosa, territoriale. L’Unione delle Corti Islamiche iniziò un processo militare di aggregazione per l’unificazione islamica e fondamentalista della nazione. Gli USA, attraverso la CIA, finanziarono l’Unione delle Corti Islamiche nella speranza di infiltrarla con i suoi agenti e controllarne l’azione. Nel 2003, un Concilio di Restaurazione e Riconciliazione della Somalia stava guidando l’azione utile per ottenere la pace: mi ricordo di aver conosciuto alcuni suoi rappresentanti in una cena ad Addis Abeba, convinti di potercela fare e pieni di speranza per il futuro. Nel novembre 2004 a Nairobi, in Kenya, nasceva un Governo Nazionale di Transizione (TNG) che nel 2006 aprì la sua Rappresentanza ufficiale a Baidoa in Somalia. Infuriava la guerra tra le forze “governative”, rappresentate dall’Alleanza per la Restaurazione della Pace contro il terrorismo (ARPCT), e le formazioni antigovernative, guidate dall’Unione delle Corti Islamiche (ICU). L’ICU sconfisse le forze dell’ARPCT e occupò Mogadiscio. A quel punto l’Etiopia di Melles Zennawi decise di intervenire per restaurare l’ordine e contrastare i continui attacchi nel suo territorio ad opera del Fronte per la Liberazione dell’Ogaden (ONLF), sostenuto dalle Corti Islamiche e dall’Eritrea. Dopo una serie di dure battaglie, a Baidoa, Bandiradley, Beledweyn, Jowhar e Jilib, il 31 dicembre 2006 Kisimayo fu occupata dall’esercito etiopico e il giorno seguente, 1° gennaio 2007, il Capo del governo somalo Ali Mohammed Ghedi invitò le forze combattenti al disarmo generale e all’accettazione del nuovo ordine costituito. Nello stesso mese gli Stati Uniti attuarono attacchi aerei sulle posizioni dei gruppi armati a Ras Kamboni, presumibilmente nel tentativo di distruggere elementi di Al Qaeda infiltrati nelle forze dell' ICU. I consiglieri USA collaboravano con l’esercito etiopico. La guerra civile in tutto il paese riprese esattamente come prima. Per ristabilire la pace l’Organizzazione per l’Unità Africana, decise di schierare una forza armata di pace composta da 80000 soldati di tutti i Paesi africani, ma le fazioni della guerriglia somala decisero di opporsi alla presenza straniera. L’infiltrazione di gruppi jiadisti e quaedisti all’interno del territorio è accertata e conduce alla radicale islamizzazione del paese e all’instaurazione della Sharia, la legge coranica. L’anno 2009 è caratterizzato da un diffuso ritorno all’uso di autobombe e kamikaze imbottiti di esplosivo. Il 25 maggio 2009 le bande armate si scontrano a Mogadiscio con le forze governative che faticano a controllare la città. Il Presidente del Governo somalo Sharif Ahmed chiede aiuto all’estero ed è l’Etiopia che nel giugno 2009 riversa le sue forze contro le posizioni dei guerriglieri. Un attentato terroristico uccide il Ministro della Sicurezza Homar Hashi Aden. Il 3 dicembre 2009 nell’Università di Mogadiscio, nel corso di una cerimonia per la consegna dei diplomi di laurea ai giovani somali, un kamikaze vestito da donna si fa esplodere: muoiono 22 persone tra cui 15 studenti e 4 ministri del governo di Sharif Ahmed. Si tratta dell’ultimo di una serie interminabile di attentati che sconvolgono la vita della capitale somala dove quasi tutti i quartieri sono in mano a gruppi armati del tutto fuori controllo.

Non ho ancora citato l’Eritrea, una nazione che negli ultimi 60 anni è passata da un conflitto all’altro, quasi senza interruzione. Dagli anni ’50 fino al 1991 il popolo eritreo ha lottato contro la sottomissione forzata all’Etiopia e per la propria legittima indipendenza. Il Fronte di Liberazione dell’Eritrea ha combattuto contro l’esercito etiopico dell’imperatore Haile Sellassie fino al 1974 e, dopo la drammatica morte di Haile Sellassie, contro l’esercito etiopico del dittatore filosovietico Haile Mariam Menghistu. Finita la guerra nel 1991 con la vittoria delle forze tigrine ed eritree alleate sembrava aprirsi una stagione di pace e sviluppo per il popolo eritreo, ma non è stato così. La democrazia non è mai stata instaurata dal leader Isaya Afawork che governa senza interruzioni dal 1991. Dal 1998 al 2000 c’è stata una sanguinosa nuova guerra con l’Etiopia: circa 120.000 eritrei morti, circa 200.000 etiopici morti, secondo stime approssimative dell’ONU, per un totale di 320.000 morti. La guerra, dopo gli iniziali successi eritrei, fu vinta dall’esercito etiopico e persa rovinosamente dagli eritrei. Non è mai del tutto cessata. In seguito l’Eritrea ha preso indirettamente parte ai conflitti in Ogaden e in Somalia in funzione antietiopica, e si è scontrata con le sue forze navali nel Mar Rosso contro la marina militare yemenita per la rivendicazione del territorio circostante le belle isole Dahlak.

Anche il Kenya subisce attacchi nel Nord del Paese da parte di gruppi armati e formazioni politiche che si scontrano per l’uso delle risorse, acqua, pascoli, terre, bestiame, o per odio etnico. Nel Parco Nazionale di Samburu o nel Parco di Marsabit, dove nel 1994 e nel 1998 sono andato per turismo senza alcun problema, oggi si va con la scorta armata o, se si seguono i rapporti dell’ONU che raccomandano di non andare, si rinuncia al viaggio. Dalla Somalia, inoltre, sconfinano le bande armate che si infiltrano in profondità nel territorio, evitano i controlli dell’esercito keniano o etiopico, depredano le carovane di mezzi al confine tra Etiopia e Kenya e rientrano in Somalia. L’estremo Nord del Kenya sta diventando un’altra Terra di Nessuno che si aggiunge al già vasto territorio del tutto fuori controllo.

In Sud Sudan le notizie più recenti lasciano la speranza che possa tornare una parvenza di Stato. Per 60 anni il Sud animista e cristiano e il Nord islamico si sono fatti la guerra. Il governo ha appoggiato la distruzione sistematica della popolazione cristiana del Sud soprattutto a partire dal 1983 quando i cristiani si ribellarono all’introduzione forzata della Sharia, la legge coranica, e nacque l’SPLM/A, cioè il Sudanese People’s Liberation Movement/Army. La guerra civile unita all’abbandono dei campi e alle conseguenti carestie produsse 2 milioni di morti e 4 milioni di rifugiati. Il 30 giugno 1989 la situazione peggiorò ulteriormente a causa del colpo di stato guidato dal generale Omar H. A. Al Bashir con il suo Fronte nazionale islamico (NIF). Nel 1996 l'ONU irrogò delle sanzioni per il coinvolgimento del Sudan negli attentati di Cairo e di Addis Abeba contro il presidente egiziano Hosni Mubārak. Nel giugno del 2002 iniziò il dialogo fra il governo sudanese e il SPLM/A e, con la mediazione del presidente dell'Uganda Yoweri Museveni, si incontrarono per la prima volta il presidente sudanese Al Bashir e il leader delle forze ribelli John Garang. Nel 2003 la guerra riprese peggio di prima. Al Sudanese People's Liberation Army in lotta si aggiunse il JEM (Justice for Equality Movement). L’ONU dichiarò lo stato di emergenza in Sudan, in particolare per la regione del Darfour, ma la “pulizia etnica” con la distruzione dei villaggi cristiani e l’eliminazione dei popoli Nuer, Dinka, Bari, Shilluk e Zande continuò con devastazioni efferate e diffuse. Il 9 gennaio 2005, a Nairobi, fu raggiunto un nuovo accordo per la pace. Karthoum, la capitale del Sudan, si riempì dei soldati del Sudanese People’s Liberation Army di John Garang. Ma il 23 dicembre 2005 il Ciad dichiarò guerra al Sudan per le razzie che i gruppi sudanesi conducevano a danno dei confinanti villaggi ciadiani. Entrò in azione anche il Lord’s Resistance Army (LRA), l’Esercito di Liberazione del Signore, formazione del Nord Uganda che ha base nel Sud Sudan e che opera militarmente con attacchi devastanti nei tre distretti nord dell’Uganda. In gioco non c’è solo la spartizione del potere tra i vari gruppi etnici, ma la divisione dei proventi che derivano dall’attività di estrazione del petrolio, la grande ricchezza del Sud del Sudan.

Il Corno non è la sola zona dell’Africa in pericolo. Tutti ricordano il Ruanda nel 1994 quando i leader degli Hutu decisero di sterminare i Tutzi. Un’armata di Tutzi dall’Uganda spazzò i “genocidiari” che si rifugiarono in Congo e da lì attaccarono di continuo il Ruanda. Un esercito ruandese invase quindi il Congo nel 1996 fino a estromettere il leader congolese Mobutu e sostituirlo con il capo della guerriglia congolese, Laurent Kabila, che nel maggio 1997 marciò trionfalmente appoggiato dalle truppe ruandesi nella capitale Kinshasa. Ma Kabila si rialleò con gli Hutu per liberarsi dell’influenza ruandese. I ruandesi, furiosi per il voltafaccia, si installarono a Kitona, non lontano da Kinshasa e in pochi giorni di combattimenti avevano occupato la diga e la centrale idroelettrica che fornisce energia alla capitale. Sbaragliate le truppe di Kabila i Tutzi ruandesi stavano per entrare a Kinshasa quando l’Angola, lo Zimbabwe e la Namidia, appoggiati dalle rispettive aviazioni, bloccarono la loro marcia. A quel punto chiunque avesse un lungo naso, caratteristica somatica dei Tutzi, veniva ucciso mentre centinaia di bande armate e gruppi militari si disperdevano nella giungla dove non hanno mai cessato di operare. Ruanda e Uganda lottavano contro le residue forze di Kabila perché Kabila stava aiutando le forze ribelli di Ruanda ed Uganda. Gli Angolani aiutavano Kabila perché era il miglior modo per far fuori i loro ribelli e, in particolare, il Fronte Nazionale della Kabinda che l’8 gennaio 2010 ha attaccato a colpi di mitra l’autobus che conduceva la squadra nazionale del Togo a Luanda per la Coppa d’Africa di calcio, il torneo che ogni 4 anni vede impegnate tutte le nazionali del continente. In Angola e in Congo, paesi ricchissimi di minerali preziosi per l’economia mondiale, negli ultimi 40 anni, secondo stime ONU, ci sono stati almeno 4 milioni di morti a causa della guerra.

Il mondo importa petrolio dal Sudan, dal Ciad, dal Congo, dalla Nigeria, dall’Angola, dall’Algeria, dall’Egitto, dalla Libia; caffè dall’Etiopia e dal Kenya, diamanti dal Congo e dalla Sierra Leone, ferro e diamanti dalla Liberia, fiori dal Kenya, frutta e verdura da tutta l’Africa, minerali, rame, nichel, oro da molti paesi africani, cotone dall’Egitto, dal Kenya e dall’Etiopia, legno, mobili e parqué per pavimenti da tutto il continente, marmo e pellami, e ancora dal Congo oro, cobalto, e coltan, un costoso minerale che è necessario per costruire i cellulari, i computer e le play station. Spesso per sfruttare il business le nazioni ricche del mondo finanziano le loro formazioni armate, attivano servizi segreti, controllano direttamente o indirettamente le miniere, i pozzi di petrolio, le piantagioni grazie anche all’alleanza con i dittatori africani corrotti e le loro polizie. L’Africa continua a produrre beni necessari per la vita di tutto il pianeta, però, a sfogliare i giornali o a guardare le televisioni del mondo moderno, gli Africani e le loro storie sembrano assenti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Paolo Giunta La Spada

23 gennaio 2010

Nairobi, 21 gennaio 2010
Per andare al Centro di Madre Teresa di Calcutta impiego una mezz’ora, passo per Muthaiga, continuo sulla strada per Tikka, e a Kasarani giro a destra e passo attraverso le fabbriche di birra Tusker e Castle. Entro nel quartiere di Gumba dove inizia uno sterrato stretto tra due file di botteghe di legno e cartone: Pub Charlie, Tzam Butchery, Joyce Beauty Salon, Safari Coffe e Joseph Best Fruit.
Il guardiano del Centro non ci sente, ma ci vede: mi apre. Nel cortile bambini e giovani con handicap di vario tipo, prevalentemente mentali. Ci scambiamo saluti. Dopo un po’ arriva una suora che mi dice di seguirla.
Suor Rio arriva col suo sorriso in 3D a colori, il velo dell’Ordine di Madre Teresa bianco garza strisciato di blu. La visita dura due ore. Io le racconto la mia vita, le mostro le foto di Cristina, di Carla e del suo battesimo a Embeccio, in Etiopia, il 19 febbraio 2000, Padre Angelo che la immerge nell’acqua.
I suoi occhi brillano di gioia. Mi racconta la sua vita. Ha fatto da segretaria a Madre Teresa a Calcutta per molti anni, parla 6 lingue, poi il Brasile, poi il Sudan dove è stata 7 anni nel pieno della guerra tra Sud e Nord, con i janawid che le attaccavano a colpi di AK47 e loro che assistevano migliaia di derelitti in fuga dai poveri villaggi incendiati. Gli aerei bombardavano e nelle buche lasciate dalle bombe le sorelle piantavano banani e papaye con i semi portati dai paesi di origine: papaye indiane, banane etiopiche… Dopo qualche tempo c’era una piantagione. I Dinka non le volevano, ma lei spiegò che erano lì “per vivere e morire con loro”, così i Dinka si aprirono a cerchio intorno a loro, le celebrarono e le accolsero, erano diventate Dinka anche loro. Mi parla a lungo dei cieli, dei tramonti, del deserto e dei suoi colori. Mi chiede dei miei viaggi in Africa.
Poi visitiamo insieme il Centro. C’è la “spazzatura dell’umanità” che nessuno vuole, handicappati fisici e mentali, malati di tubercolosi, malati di Aids, bambini nati male e malformati, qualche pazzo pericoloso. C’è l’angolo per lavare i panni e quello separato per lavare i piatti. Ogni giorno preparano da mangiare per 150 persone, compresi i poveri del quartiere, e c’è un buon odore di cipolla nell’aria. Il Centro è circondato da un muro col filo spinato: anni fa, mi racconta Suor Rio, “sono arrivati dei banditi, hanno picchiato brutalmente le sorelle, non le hanno uccise o stuprate, ma le hanno battute duramente. Quelle sorelle per lo shock sono state trasferite e ora siamo arrivate noi, inoltre c’è il muro che ci protegge”. Il centro è arioso, ben costruito, c’è perfino un piccolo chiostro prima della zona della clausura. Parliamo a lungo e io le racconto del Centro di Madre Teresa di Sidis Kilo, ad Addis Abeba in Etiopia. Non glielo dico, ma lì, mi ricordo, l’aspetto generale e la visione delle varie stanze erano più deprimenti: l’odore cattivo dei pagliericci sudati e sporchi si mischiava ad una atmosfera tetra e senza speranza.
Lì ad Addis la sorella che mi aveva accolto mi raccontava che due ragazze avevano compiuto 18 anni il giorno prima, me le mostrava contenta e orgogliosa, ma loro non sapevano neanche attraversare la strada, dove mai potevano andare dopo 18 anni nel Centro? Chi le avrebbe mai sposate, amate e protette? Ricordo anche 85 bambini, piccoli e nudi, con le buste di plastica attaccate ai fianchi al posto dei pannolini. Ricordo la disciplina dei poveri che sanno ringraziare il Signore anche per quel poco che hanno, le lunghe code in piedi per avere le medicine e le istruzioni che impartivano le suore.
Tante mani strette e saluti fino all’uscita e mi è parso, come sempre dopo questo tipo di visite, di essere un fortunato pensando a quanti regali mi fa la vita ogni giorno.
E’ stato così anche stavolta. Mentre facevo manovra con la macchina non riuscivo a staccare l’attenzione dal sorriso profondo e felice di Suor Rio che non finiva di ringraziarmi. Intorno a lei un nugolo di ragazzi malati, di braccia storte, di invocazioni, ma lei sorrideva come se fosse appena uscita da un party ben riuscito, da una festa favolosa di suoni e colori.
Grazie a te Suor Rio.