23 gennaio 2010

Nairobi, 21 gennaio 2010
Per andare al Centro di Madre Teresa di Calcutta impiego una mezz’ora, passo per Muthaiga, continuo sulla strada per Tikka, e a Kasarani giro a destra e passo attraverso le fabbriche di birra Tusker e Castle. Entro nel quartiere di Gumba dove inizia uno sterrato stretto tra due file di botteghe di legno e cartone: Pub Charlie, Tzam Butchery, Joyce Beauty Salon, Safari Coffe e Joseph Best Fruit.
Il guardiano del Centro non ci sente, ma ci vede: mi apre. Nel cortile bambini e giovani con handicap di vario tipo, prevalentemente mentali. Ci scambiamo saluti. Dopo un po’ arriva una suora che mi dice di seguirla.
Suor Rio arriva col suo sorriso in 3D a colori, il velo dell’Ordine di Madre Teresa bianco garza strisciato di blu. La visita dura due ore. Io le racconto la mia vita, le mostro le foto di Cristina, di Carla e del suo battesimo a Embeccio, in Etiopia, il 19 febbraio 2000, Padre Angelo che la immerge nell’acqua.
I suoi occhi brillano di gioia. Mi racconta la sua vita. Ha fatto da segretaria a Madre Teresa a Calcutta per molti anni, parla 6 lingue, poi il Brasile, poi il Sudan dove è stata 7 anni nel pieno della guerra tra Sud e Nord, con i janawid che le attaccavano a colpi di AK47 e loro che assistevano migliaia di derelitti in fuga dai poveri villaggi incendiati. Gli aerei bombardavano e nelle buche lasciate dalle bombe le sorelle piantavano banani e papaye con i semi portati dai paesi di origine: papaye indiane, banane etiopiche… Dopo qualche tempo c’era una piantagione. I Dinka non le volevano, ma lei spiegò che erano lì “per vivere e morire con loro”, così i Dinka si aprirono a cerchio intorno a loro, le celebrarono e le accolsero, erano diventate Dinka anche loro. Mi parla a lungo dei cieli, dei tramonti, del deserto e dei suoi colori. Mi chiede dei miei viaggi in Africa.
Poi visitiamo insieme il Centro. C’è la “spazzatura dell’umanità” che nessuno vuole, handicappati fisici e mentali, malati di tubercolosi, malati di Aids, bambini nati male e malformati, qualche pazzo pericoloso. C’è l’angolo per lavare i panni e quello separato per lavare i piatti. Ogni giorno preparano da mangiare per 150 persone, compresi i poveri del quartiere, e c’è un buon odore di cipolla nell’aria. Il Centro è circondato da un muro col filo spinato: anni fa, mi racconta Suor Rio, “sono arrivati dei banditi, hanno picchiato brutalmente le sorelle, non le hanno uccise o stuprate, ma le hanno battute duramente. Quelle sorelle per lo shock sono state trasferite e ora siamo arrivate noi, inoltre c’è il muro che ci protegge”. Il centro è arioso, ben costruito, c’è perfino un piccolo chiostro prima della zona della clausura. Parliamo a lungo e io le racconto del Centro di Madre Teresa di Sidis Kilo, ad Addis Abeba in Etiopia. Non glielo dico, ma lì, mi ricordo, l’aspetto generale e la visione delle varie stanze erano più deprimenti: l’odore cattivo dei pagliericci sudati e sporchi si mischiava ad una atmosfera tetra e senza speranza.
Lì ad Addis la sorella che mi aveva accolto mi raccontava che due ragazze avevano compiuto 18 anni il giorno prima, me le mostrava contenta e orgogliosa, ma loro non sapevano neanche attraversare la strada, dove mai potevano andare dopo 18 anni nel Centro? Chi le avrebbe mai sposate, amate e protette? Ricordo anche 85 bambini, piccoli e nudi, con le buste di plastica attaccate ai fianchi al posto dei pannolini. Ricordo la disciplina dei poveri che sanno ringraziare il Signore anche per quel poco che hanno, le lunghe code in piedi per avere le medicine e le istruzioni che impartivano le suore.
Tante mani strette e saluti fino all’uscita e mi è parso, come sempre dopo questo tipo di visite, di essere un fortunato pensando a quanti regali mi fa la vita ogni giorno.
E’ stato così anche stavolta. Mentre facevo manovra con la macchina non riuscivo a staccare l’attenzione dal sorriso profondo e felice di Suor Rio che non finiva di ringraziarmi. Intorno a lei un nugolo di ragazzi malati, di braccia storte, di invocazioni, ma lei sorrideva come se fosse appena uscita da un party ben riuscito, da una festa favolosa di suoni e colori.
Grazie a te Suor Rio.

22 gennaio 2010


Nairobi 8 gennaio 2010
La mattina del 5 gennaio 2010 splende il sole nel cielo azzurro del Kenya. La signora americana Sharon Brown ha sistemato Margaux, sua figlia di un anno, nel marsupio sul suo petto e, insieme al marito, professore presso la Kenya International School di Nairobi, è uscita per una tranquilla passeggiata lungo il Nature Trail del Castle Forest Lodge, un buon albergo appena fuori i confini del Monte Kenya National Park. Con loro una guida dell’albergo che li accompagna e diversi altri turisti. La strada è battuta e ben segnalata, ogni giorno percorsa dai ranger dell’albergo e da decine di turisti. All’improvviso e senza alcuna ragione un elefante femmina carica il gruppo. Tutti fuggono e tornano in albergo di corsa, tutti meno la povera signora Brown e la sua bambina nel marsupio. L’elefante le ha uccise e i loro corpi vengono trovati a 7 o 8 metri di distanza l’uno dall’altro. Sono addolorato e turbato per questo tragico evento.
Gli scienziati parlano di “frammentazione degli habitat” in cui vivono gli elefanti e del fatto che l’espansione demografica umana, unita al bracconaggio, conduce i branchi alla fuga e alla costante perdita di territori. I bracconieri uccidono i grandi maschi o le femmine più mature d’età perché hanno le zanne più grandi. Il commercio d’avorio è proibito dal 1989, ma un chilo di zanne d’elefante vale 750 dollari. A causa della caccia e del selvaggio taglio delle foreste gli elefanti più giovani perdono il branco e i legami di famiglia e, rimasti soli, possono essere pericolosi. Spesso mancano, come gli umani, di controllo sociale. Gli studiosi del mondo animale spiegano che le femmine più anziane, le nonne con esperienza, sono sempre più rare. Le madri giovanissime non sanno come allevare bene i figli e gli orfani crescono senza riferimenti culturali. La società, come succede da noi, va allo sbando.
Gli elefanti sono dotati di una raffinata organizzazione sociale, di una memoria straordinaria e di grande sensibilità. Quando un elefante muore gli altri lo seppelliscono con rami e foglie e restano a vegliarne il cadavere per giorni e giorni. Negli anni seguenti tornano sul posto e vi sostano seguendo un preciso cerimoniale. Se uno di loro viene ucciso il gruppo è capace di aspettare per anni fino a quando la vendetta viene portata a termine. Gli elefanti stanno diventando, dopo gli ippopotami, una diffusa causa di morte per gli esseri umani in Africa e, all’interno del ciclo biologico, animali assai più aggressivi che in passato.
Quando siamo andati ad Aberdare National Park nella sala dell’Ark, sopra il bel camino acceso, abbiamo notato la testa-trofeo di un grande rinoceronte bianco. Il ranger ci ha raccontato che era stato ucciso da un elefante femmina appena l’aveva visto avvicinarsi troppo al suo piccolo (che aveva iniziato a giocare con il piccolo di rinoceronte).
Non c’è animale o automobile al mondo che possa resistere alla carica di un elefante.
Sono loro i re della foresta, non i leoni.
Certo, “nessun animale, per quanto veloce, ha più velocità di un leone che carica da una distanza di pochi metri. E’ uno scatto più veloce del pensiero, sempre più veloce della fuga” scriveva Beryl Markham in “West with the night”, ma la progressione di un elefante che carica è irresistibile anche per i grandi felini. I leoni si spostano dall’abbeveraggio quando arrivano gli elefanti: i maschi all’esterno, le femmine in posizione intermedia a dare ordini, i piccoli, si fa per dire, al centro, come ho visto tante volte davanti ad ogni waterhole.
In trent’anni di viaggi in Africa ho incontrato centinaia e centinaia di elefanti: non credo che possano essere aggressivi senza una ragione.
Nel 1988, in Malawi, avevo noleggiato un piccolo battello per risalire da nord a sud il corso del fiume Shire, affluente del lago Malawi, all’interno del parco nazionale. Nel tardo pomeriggio, durante le ore più fresche, con una barca più piccola raggiungevamo la riva e facevamo escursioni a piedi nel bush. Una sera, col sole che emanava la sua ultima luce giallo ocra, silenziosamente un grande elefante mi passò davanti a 5 o 6 metri di distanza. Per fortuna il gruppo di turisti che guidavo rimase silenzioso e fermo. Più in là vedemmo un’intera famigliola: maschio, mamma e piccolo. Camminavano placidi verso nord, rossi di polvere e abbagli porpora del sole al tramonto.
Dieci anni dopo a Marsabit, nel nord del Kenya, io e Cristina dormivamo in tenda sulle rive del lago, nell’unico luogo dove è consentito campeggiare all’interno del cratere.
Era una placida notte stellata quando fummo svegliati dai potenti barriti degli elefanti che passarono in mezzo alle tende e se ne andarono. Se avessero voluto ci avrebbero spazzato via, non solo non lo fecero, ma lasciarono tutto il materiale da campeggio intatto come se il loro passaggio fosse stato un sogno. Per la paura non riuscimmo a riprendere sonno per un po’ e neanche uscimmo dalla tenda. Il giorno seguente ci guardammo bene dal tornare a campeggiare lì: ci avevano avvertiti con i loro barriti. Per fortuna dovevamo partire per il deserto del North Horr.
La tragedia della signora Sharon ha acceso discussioni a Nairobi sulla sicurezza nei safari. Se si visita un parco a piedi e si incontrano animali bisogna rimanere in totale silenzio e non muoversi. Se si sta in macchina e arriva la sera è bene ritornare sulla strada che riporta al lodge. Una collega di Cristina, durante un safari in Uganda, ha avuto un guasto al motore della jeep all’imbrunire e ha passato la notte con tutta la famiglia in macchina. Ma tutte questo non c’entra con il caso della signora Sharon e di sua figlia: avevano la loro guida, erano nei pressi dell’albergo, stavano su un sentiero autorizzato. Il governo keniano ha dichiarato che estenderà la concessione del fucile ai ranger anche al di fuori dei parchi nazionali: il Nature Trail del Castle Forest Lodge è appena fuori del Monte Kenya National Park e il ranger non aveva fucile.
Sarebbe meglio proporre un turismo ecosostenibile, la limitazione degli accessi ai parchi nazionali, una seria repressione del bracconaggio e un vero controllo del territorio, ma non è facile perché sono in tanti che mangiano grazie al bracconaggio e nel bush il territorio non ha confini chiaramente delimitati e non esiste alcun controllo.
E’ l’Africa.