23 marzo 2011

A Sud dell’Italia. Seconda parte.

La Libia.

http://paologls.blogspot.com/2011/02/sud-dellitalia-se-non-si-studia-lafrica.html


Da 5 giorni è in vigore la Risoluzione Numero 1973 dell’ONU sulla crisi libica. Per 4 giorni aerei di diversi Paesi europei hanno bombardato impianti e basi in Libia. Il mondo è stato lento ad occuparsi della crisi libica, ma la risoluzione 1973 è giunta all’improvviso e risulta scritta in modo confuso.
La Libia è uno stato sovrano presente nell’ONU e riconosciuto da tutti i Paesi del mondo. Negli ultimi 10 anni Gheddafi aveva ripristinato buone relazioni con tutto il mondo occidentale senza eccezioni, USA compresi, e instaurato un rapporto di vera e propria alleanza con l’Italia diretta dal premier Berlusconi. La critica che questo blog ha espresso su tale alleanza e sui conseguenti accordi, tutti a favore del regime di Gheddafi, è quasi un’eccezione nel panorama politico italiano.

http://paologls.blogspot.com/2010/10/storie-di-mari-e-migranti.html

Quando un anno fa Gheddafi venne in visita a Roma con le sue cortigiane, attendato a Villa Pamphili, e il premier italiano gli organizzò perfino un incontro con 85 escort pagate dai contribuenti italiani 100 Euro l’ora ci furono, tutto sommato, proteste contenute.
E anche quando gli “amici” libici, come li definì il governo nell’occasione, spararono contro i pescatori italiani su un battello regalato dall’Italia alla Libia pochi furono coloro che chiesero a gran voce l’azzeramento degli accordi Italia-Libia (oltre ai pescatori e a questo blog pochissimi politici; molti espressero perplessità che è un modo italiano per non dire niente).

E’ evidente che l’Italia rischia più di tutti i suoi partner europei.
I soldi buttati dal governo del premier e regalati a Gheddafi, le armi, le navi e gli aerei donati o venduti con mutui trentennali non ce li ridarà più indietro nessuno.
In un mese di crisi il governo non ha saputo costruire una sola iniziativa politico-diplomatica che evitasse la situazione attuale. I primi due giorni di crisi il premier e Frattini erano per il “non–intervento”. Quando hanno visto che gli “insorti” erano alle porte di Tripoli, senza premurarsi neanche di verificare le notizie, che erano per lo più false, hanno cambiato idea e hanno cominciato a parlare di “rispetto dei diritti umani”.
Poi c’è stato il premier francese che, incurante del politicamente corretto, si è napoleonicamente autonominato presidente in campo di tutte le forze militari contro Gheddafi.
Da allora, paurosi di essere scavalcati dagli altri e soprattutto dai francesi, immemori per ignoranza dello “schiaffo di Tunisi” del 1881, ma probabilmente sensibili a complessi di inferiorità riguardo a iniziative militari, i rappresentanti del governo, in particolare il Ministro La Russa, si sono distinti per dichiarazioni guerresche in cui sembrava che della task force in campo per applicare la No Fly Zone gli italiani dovessero essere i primi o quasi: “l’Italia non è seconda a nessuno” ha detto il Ministro il primo giorno della risoluzione ONU.
La sera seguente i primi bombardamenti, con i giornali che sparano in prima pagina “ci sono anche i Tornado italiani!” e le dichiarazioni di Gheddafi sul premier Berlusconi traditore, si fa una nuova marcia indietro e il governo dichiara: “i nostri aerei non sparano, vanno solo a cercar radar”. Nessuno dice cosa fanno se li trovano.
Inoltre, c’è un altro mezzo ripensamento: si dice che è meglio un comando unificato NATO e si minaccia di chiudere le basi. Le basi italiane della Nato sono ad Aviano in Friuli, Camp Ederle a Vicenza, Ghedi in Lombardia, Camp Derby a Livorno in Toscana, Gaeta nel Lazio, Napoli, Gioia del Colle in Puglia, Sigonella in Sicilia. Il Centro Ricerche è a La Spezia, la Scuola Comunicazioni è a Latina e i Comandi sono a Roma, La Spezia, Latina e Napoli.
Non credo che sia pensabile un comando NATO unificato nel Mediterraneo senza la Turchia, contraria all’intervento.
Quindi la speranza italiana che “alla guerra si vada insieme” è un’infantile illusione. Ognuno farà da solo in linea con i propri interessi nazionali e alla faccia dell’Europa unita e del diritto di tutti nel mondo di far valere la propria opinione.
Il governo, invece di aspettare le decisioni degli altri, dovrebbe sviluppare iniziative diplomatiche originali e “forti” e cercare le vie della trattativa con l’aiuto dei paesi arabi, africani e occidentali che non vogliono vedere la Libia ridotta come l’Irak o la Somalia.
La nullità politica internazionale del premier italiano, lesto ad organizzare festicciole con le escort, ma incapace di articolare una politica estera che vada al di là dei suoi interessi personali, è evidente.
Dovrebbe dimettersi non per il caso Ruby, o per lo meno non solo per quel caso che infanga l’immagine dell’Italia in tutto il mondo, ma perché si dimostra incapace di gestire le relazioni dell’Italia con il resto del mondo.
In ogni caso tutto si può accettare meno che un silenzio di un mese e una serie di tentennamenti che neanche un Savoia…
Non è un caso che l’inviata di Obama, Nancy Pelosi, sia andata a parlare della crisi libica col Presidente Napolitano e non con il premier.
Se l’Italia ha fatto male, l’ONU ha fatto malissimo, e Francia e Regno Unito hanno fatto peggio.
La risoluzione è passata a stento: 10 voti a favore e 5 defezioni importanti: Cina, Russia, Germania, Brasile e India.
I rappresentanti tedeschi hanno detto che l’azione militare può andare fuori controllo e condurre ad un "large scale loss of life", una perdita di vite su larga scala.
L’India ha affermato che non ci sono sufficienti informazioni sul campo per intervenire in modo appropriato e corretto.
La Russia ha escluso il suo intervento.
La Cina è molto critica e irritata.
La maggior parte dei Paesi africani e arabi è contraria e sospetta che la No fly-zone sia una scusa per un’ingerenza indebita negli affari della Libia. Il segretario della Lega Araba è a favore. L’Unione Africana è contraria.
La Risoluzione non parla solo di No Fly Zone, ma di adottare tutte le misure necessarie per proteggere i civili in Libia: “all measures necessary to protect civilians in Libya”.
E se sono gli insorti a bombardare e uccidere i civili? E i bombardamenti francesi e inglesi tutelano i civili?
Come è successo in Irak e in Afghanistan?
La rimozione del potere di Gheddafi non è negli obiettivi della Missione anche se si fa strada l’idea che se Gheddafi vince l’instabilità nel Mediterraneo sia destinata a crescere.
La Risoluzione è stata opera dei francesi e degli inglesi.
Su questa crisi vengono dette molte bugie. In un primo tempo si raccontava che gli insorti stavano avendo ragione del regime di Gheddafi. Difficile pensare che gente inerme, a mani nude, riesca a sconfiggere un regime solido in due soli giorni.
Chi li arma? Chi c’è dietro di loro? Le tribù beduine non hanno denaro e competenze per gestire un conflitto di tali dimensioni.
Il rappresentante inglese all’ONU Mark Lyall Grant ha detto che la Risoluzione è passata per porre fine alle violenze, "protect civilians" and let Libyans "decide their own future".
Avevamo sentito queste belle parole dette da rappresentanti inglesi anche a proposito dell’Irak. Allora l’esecutivo era retto dal laburista Blair che sostenne Bush nelle bugie usate per attaccare l’Irak e distruggerlo, oggi c'è il conservatore Cameron.
Cambiano i leader inglesi, ma gli inglesi non cambiano mai.
Si sa poi come è andata a finire in Irak: una catastrofe che continua ancora oggi tutti i giorni.
Si dice che reparti britannici in incognita già affiancherebbero “gli insorti” nelle operazioni militari sul territorio, cosa che la Risoluzione ONU proibisce, e si ipotizza che siano già attivi anche i militari francesi: un preludio di guerra su larga scala?
Mettiamola così: immaginiamo che un Paese sovrano in buone relazioni col mondo intero subisca in casa propria un tentativo di colpo di stato. Che si fa? Si aspetta che l’ordine sia ripristinato, vero?
Nel caso della Libia di Gheddafi questo non è successo, è accaduto il contrario. Si dice: è un dittatore spietato, ha ucciso e affamato i libici. E’ vero, ma dovevate dirlo prima: quando dicevate il contrario.
La realtà è che con Gheddafi, quello che ha cacciato gli italiani nel 1970 rubando impunemente tutti i loro beni, si fanno ottimi affari. Non solo gli italiani con il petrolio e la vendita di armi: anche i francesi prendono petrolio e vendevano Mirage fino all’altro giorno, gli inglesi, i tedeschi, tutti.
Oggi la guerra si fa per le stesse ragioni per cui si faceva la pace: per il petrolio. Infatti l’ONU non è stato convocato da Parigi e da Londra per nazioni dove sono in corso devastanti guerre civili.
Un esempio? La Costa d’Avorio, dove muoiono ogni giorno centinaia di persone inermi e nessuno se ne interessa.
Insomma le nazioni occidentali, in particolare Regno Unito, Francia e USA, con la falsa scusa della “democrazia” pensano solo a curare i loro interessi economici, commerciali e politici.
Come nel 1991 quando in Algeria si svolsero regolari elezioni politiche, ma vinse il FIS, il Fronte Islamico di Salvezza che avrebbe instaurato la Sharia e iniziato una politica antioccidentale e antifrancese. Così il risultato delle elezioni non fu rispettato, e con il beneplacito dello spionaggio francese e americano ci fu un colpo di stato: l’Algeria si schierò con l’Occidente e a nessuno venne voglia di parlarne anche se per anni ci fu una orribile guerra civile. Come dire: “ ci vanno bene le elezioni, ma solo se vincono i nostri candidati”...
Si dice che la guerra finirà in pochi giorni, ma io dubito che sia come vorrebbero far credere.
La Libia può comprare armi dal Ciad di Idriss Deby, grande sostenitore di Gheddafi. Si sa che l’ambasciatore libico a N’Djamena è accusato dalle Nazioni Unite di aver reclutato mercenari per sostenere l’esercito libico. Altri aiuti giungeranno da Sud da paesi amici del regime di Tripoli: Mali e Niger; o da ovest: dall’Algeria, seppure clandestinamente. Vogliamo estendere la No-fly zone a tutta l’Africa del Nord? E poi?
Intanto si intensifica il senso di divisione che i libici avvertono in questi giorni: da una parte l’est aiutato e già influenzato dagli stranieri, dall’altra l’ovest, in particolare i due milioni di abitanti di Tripoli che non hanno protestato contro Gheddafi, che inizia a sentirsi accerchiato dalla propaganda del colonnello e dall’intervento militare straniero che appare ai loro occhi come un'operazione di stampo coloniale.
Quando la Libia sarà divisa e smembrata in più regioni ci ricorderemo degli errori di questi giorni. Anche il popolo libico se ne ricorderà.

Paolo Giunta La Spada

22 marzo 2011

Il Popolo Ponte


Unità d’Italia. Terza parte.

Il Popolo Ponte.

Una geografia unica.

Per capire quanto sia fondata l’idea dell’Italia nazione, ma anche per comprendere la sua specifica peculiarità e le differenze interne al suo territorio, partiamo dalla considerazione della sua geografia. E’ raro trovare nel pianeta un Paese così facilmente individuabile, così piccolo ma identificabile immediatamente nel mappamondo o nel planisfero dell’atlante di geografia. Lo “Stivale” è perfettamente distinguibile. E’ isolato dal resto dell’Europa da una catena montuosa straordinaria e imponente: le Alpi. Una cornice di montagne aguzze che per millenni furono difficilmente attraversabili e delimitarono fortemente gli spazi comunicativi della penisola. Quando si prende un aereo e si va a Zurigo si capisce l’Italia meglio che guardando un atlante. La divisione è netta: la spettacolare desolazione dei monti coperti da ghiacciai innevati ci parla di un altro mondo. Il ritorno in Italia è caratterizzato dai declivi delle sue montagne che scendono gradualmente alle verdi colline e alle dolci pianure: il confine è netto e non è solo un confine politico, ma fisico, aereo, biologico.

Il mare.

L’altro grande confine naturale d’Italia è costituito dal mare, un confine altrettanto imponente nella sua vastità. Nelle epoche più remote, quando i sistemi di navigazione erano all’inizio, costituiva un confine difficilmente attraversabile. Con lo sviluppo delle antiche civiltà del Vicino Oriente, del Nord Africa, e soprattutto col fiorire della Grecia classica, il mare divenne lo spazio ideale di vita delle popolazioni italiche sempre in contatto con altre culture. Le più alte forme di civiltà nascono sulle coste italiche con la sicura influenza della civiltà ellenica e mediterranea. Il “confine” del mare fu, nel corso della storia antica, molto più attraversato di quello alpino. La civiltà greca ebbe su Roma un’influenza straordinaria e fortemente pervasiva e il Mediterraneo antico ebbe per millenni una cultura dai tratti comuni assai più evoluta rispetto a quella dei popoli nord-europei dediti alla pastorizia e al nomadismo. Per secoli furono “incivili” nel senso letterale: non conoscevano la civitas e quando invasero Roma nel quinto secolo d. C. invece di usare le sue splendide case, le ville dotate di acqua corrente e le meravigliose terme, la distrussero. I Romani, che avevano fondato e costruito tutte le città italiane, quasi tutte le città europee e perfino molte delle città nordafricane e medio-orientali, li chiamavano barbari.
La bio-geografia e la storia antica della penisola italiana rendono evidenti alcuni aspetti importanti per capire l’identità degli italiani.

Divisi all’interno.

La montuosità della penisola ha diviso le popolazioni non solo sulle Alpi, ma ancora di più lungo la catena montuosa degli Appennini. Nell’epoca pre-romana e romana, per esempio, era più facile per un abitante del Lazio comunicare via mare con la costa della Sardegna, della Sicilia, o dell’Africa del Nord, che recarsi via terra sulla costa adriatica. La costruzione delle strade consolari, in particolare la Salaria e la Flaminia, con il loro percorso tortuoso, impervio e pericoloso per la possibilità di agguati e imboscate, cambiò di poco la condizione di popoli che erano divisi da alti monti e ripide valli, stretti valichi e lunghe creste di roccia. La divisione culturale degli italiani è il prodotto, oltre che delle esperienze vissute, di una geografia divisiva: genti che vivono in regioni diverse nel paesaggio e nel clima, nel suolo e nella vegetazione, che parlano lingue diverse, con tradizioni e interessi talora distanti, con mezzi di comunicazione e di trasporto difficili. La divisione però è varietà, la varietà è ricchezza.

Divisi dagli altri e uniti dall’”Isola” Italia.

Se si guarda la penisola su un atlante o dall’alto di un aereo si vede che l’Italia è isolata anche dal resto del mondo molto più di altre nazioni. I nostri confini non sono solo politici e non sono stati segnati solo sulle carte geografiche. Sono il prodotto di una storia millenaria celata in due barriere naturali imponenti e nette: le Alpi a Nord, il mare altrove. L’Italia è stata sempre la terra al di là delle Alpi per gli europei provenienti dal Nord e la terra al di là del mare per chi veniva da Sud. Comunque una terra lontana e diversa, nello spazio fisico e mentale. La nostra geografia è divisiva all’interno, ma unificante per la netta separazione che impone rispetto a tutti gli altri. Questa è l’unicità italiana. Tutti diversi: toscani, romagnoli, emiliani, siciliani, palermitani, catanesi, napoletani, romani, laziali, friulani, veneti, piemontesi, lombardi, bergamaschi, milanesi, torinesi, lucani, calabresi, pugliesi, baresi, salentini, liguri, umbri, marchigiani, molisani, abruzzesi, sardi, ecc. eppure tutti affratellati dalla comune differenza rispetto agli altri.

Il Popolo Ponte al centro del mondo.

La penisola assomiglia oltre che a uno “stivale” a una sorta di ponte tra Europa e Africa. Lo sanno bene gli emigrati che sbarcano sulle coste della Sicilia, della Puglia e della Calabria. Lo sa bene il ministro Maroni.
Piazzata al centro del Mediterraneo tra Europa, Africa e Asia l’Italia è un “centro” del mondo.
Non si può pensare che l’Italia sia più unita all’Europa di quanto non sia unita all’Africa. Il confine marino, pur costituito di una diversa sostanza fisica, è paragonabile come bordo di separazione a quello alpino. Oggi attraversare il Brennero in autostrada è facile come prendere un aliscafo e recarsi a Tunisi. I ponti ci sono per essere percorsi e l’Italia è stata in contatto, grazie alla sua natura biogeografica, con i più svariati popoli. L’italianità è anche il frutto di questa unicità di esperienze storiche. L’Italia è Greci ed Etruschi, Romani e “barbari”, Europa Africa e Oriente, Nord e Sud, Est e Ovest, Marco Polo e Cina, Svevi e Normanni, Francesi, Arabi e Aragonesi, Castigliani, Austriaci, Tedeschi e Americani, fino agli emigrati italiani sparsi nel mondo e agli immigrati stranieri.
Un “popolo ponte” è un artefice di comunicazione tra società diverse. E’ il più formidabile mediatore culturale. E’ un popolo che “sta in mezzo” a culture diverse e spesso opposte. Di tali culture elabora analisi e ipotesi interpretative e sviluppa sintesi utili alla sua vita e alla vita degli altri. Questo è splendido e fa capire perché l’Italia ha fondato per prima al mondo le università e le banche, perché chi ha scoperto le Americhe era italiano, perché l’Umanesimo è nato in Italia, perché il culto del bello e dell’utile sono nel nostro DNA da secoli e perché nella terra di Leonardo si nutrono intelligenza, buon senso, creatività, flessibilità e diplomazia.
I nostri peggiori difetti sono figli delle nostre migliori qualità: l’intelligenza confina con la furbizia, il buon senso diventa indisciplina, la flessibilità può trasformarsi in assenza di regole, la capacità diplomatica e relazionale condotta all’esasperazione diventa ambiguità e incertezza di vedute.
Come ogni “società ponte” l’Italia trae beneficio dal dialogo con gli altri e perfino da un certo livello di conflittualità: la vivacità culturale e l’apertura mentale sono sempre il viatico della libertà civile e della autentica democrazia.


Sottoposti a influssi continui e a costanti moti centripeti in casa e fuori rischiamo però di essere sempre in lotta con gli altri e con noi stessi come ai tempi di Pisa, Amalfi, Genova e Venezia. O come ai tempi di Dante, dei Gonzaga, di Cola di Rienzo, dei Visconti e degli Sforza, di Pisa e Firenze, dei Medici, dei Borgia, un principe contro l’altro, una torre contro l’altra, un campanile contro l’altro. Pronti a sostenere l’arrivo di eserciti stranieri pur di sconfiggere il nemico italiano.
Altre importanti nazioni europee come la Francia, la Spagna e il Regno Unito hanno conosciuto un processo di unificazione e centralizzazione statale già 4 o 5 secoli fa. Per l’Italia è stato diverso. L’Italia è sempre stata divisa, spezzettata, invasa da altre culture che l’hanno variamente influenzata e condizionata sia in senso positivo, sia in negativo. Anche la storia del popolo italiano è stata storia di città e tradizioni diverse che si sono unite o combattute a seconda delle epoche e delle contingenze. Oggi, impaurita dalla nuova ondata migratoria, l’Italia sta perdendo il carattere ecumenico e la vocazione alla mediazione culturale: si sta trasformando in una società chiusa, ostile, provinciale e paesana.

L’Italia non è solo biogeografia e guerre che hanno attraversato incessantemente il suo straziato corpo. L’idea di Italia ha origine in una cultura straordinaria che ha le sue basi nella classicità del mondo antico, nella cultura del Dolce Stil Novo, nell’evoluzione economica e sociale dei Comuni e nel potente fervore della rivoluzione umanistica e rinascimentale. Il Risorgimento non ha fatto altro che modernizzare un’idea di nazione che era già presente nonostante le divisioni e l’occupazione straniera. I giovani italiani del Risorgimento, incarcerati torturati e uccisi dagli austriaci che occupavano il suolo patrio, lottavano per il futuro. Il loro furore romantico avverso alla Restaurazione era il nostro futuro. Non dobbiamo mai smettere di ringraziarli.
“Quando un popolo è politicamente malato di solito ringiovanisce se stesso e ritrova alla fine lo spirito che aveva lentamente perduto per riscoprire e conservare la sua potenza. La civiltà deve le sue più alte conquiste proprio alle epoche di debolezza politica” scriveva Nietzsche nel 1878 in “Umano troppo umano”.
Foscolo, Leopardi, Confalonieri, Maroncelli, Mazzini, Garibaldi, De Sanctis, Nievo, D’Azeglio, Cattaneo, Pisacane, Verdi avevano l’angoscia che l’Italia fosse “ sì bella e perduta” come recita il Nabucco verdiano.
Il loro sgomento è oggi vivo e attuale in tutti noi.
Serve il nostro nuovo Risorgimento.
“Gli italiani aspettano sempre una storia del loro Risorgimento: una storia di ampio respiro; penetrata e animata di realtà; illuminata dal “senno del poi”, vale a dire dalla comprensione di quel che è l’Italia, nata da quello sforzo; una storia che non sia né elogio, né requisitoria, non ricerca di eroi da incorniciare per la patria galleria o di idoli da adorare come incarnazioni di verità assolute; una storia infine che, pur circoscrivendo, nella vita d’Europa e del mondo, l’Italia e, nell’Italia, una certa determinata epoca detta il Risorgimento, ci presenti poi quell’Italia parte di un tutto e piena dello spirito del mondo e nel Risorgimento ci faccia sentire, viva, presente ed operosa, la storia di vari secoli di vita italiana, quanti sono necessari per dar ragione di quel che il Risorgimento è stato e di quel che non è stato” scriveva Gioacchino Volpe nel 1922. Proprio quell’anno un re celebre per la sua viltà consegnava l’Italia alla dittatura.

Dopo la Liberazione dal fascismo, molti italiani erano restii a parlare di Patria e riluttanti a riprendere quel tricolore che s’era troppo confuso con le messe in scena del passato regime. Del resto le due grandi forze che dominavano la politica italiana dopo la seconda guerra mondiale erano entrambe “antiitaliane”. I comunisti che avevano dato il più grande e incisivo contributo alla lotta di liberazione, erano filosovietici, e prima di obbedire alla Patria ascoltavano l’opinione di Stalin. Fu così fino alla morte di Stalin nel 1953; continuò con Chruscev e Breznev e il Partito Comunista Italiano cambiò in parte tale impostazione solo grazie al segretario politico Enrico Berlinguer, e solo a partire dai fatti di Praga del 1968. I cattolici italiani erano sempre stati fedeli a un papato che aveva scomunicato e osteggiato l’Italia fin dalla sua nascita, aveva finanziato e armato il brigantaggio anti-italiano dopo l'unità, aveva denunciato al mondo la “violenza” del 20 settembre 1870 a Porta Pia con la presa di Roma da parte dei bersaglieri.
I cattolici si fidavano poco dei comunisti e dei liberali anche nel 1946, seguivano i suggerimenti politici del Vaticano, ascoltavano il Papa, preferivano l’autorità spirituale al diritto civile e alle esigenze sociali della nascente repubblica.
Inoltre gli italiani avevano subito il fascismo per 20 anni: quando si liberarono dalla dittatura scattò un diffuso antinazionalismo che era errato, ma in gran parte costituiva una comprensibile reazione al fanatismo fascista del ventennio, alle bugie, agli inganni e agli orrori perpetrati con la scusa dell’amore per la Patria. Si passò dalla “salvaguardia della razza” a un mal celato complesso di inferiorità nei confronti di altre nazioni.
Per 50 anni le Sinistre hanno avuto la colpa di sventolare la bandiera rossa piuttosto che il tricolore regalando il tema dell’amor di Patria alle manipolazioni nostalgiche della Destra.
Negli anni ’80 la Lega Nord ha iniziato a cavalcare il tema dell’antiitalianità con i ceti medi e la classe operaia del Nord devastati dalla crisi economica e dall’invadenza del fenomeno migratorio.
Tanti, di Destra e di Sinistra, del Sud e del Nord, contro l’Italia, quindi.
Ma l’Italia non è né di destra, né di sinistra: l'Italia è l'Italia.
Ipotesi: vista la scellerata politica del premier, interessato solo alle escort di Via Olgettina e alle sue aziende, viste le posizioni leghiste e le spinte divisive che vengono dall'interno stesso dell’attuale governo, considerate le carenze dell’attuale classe dirigente che non è capace di dirigere, è probabile che l’Italia si separi in 5 o 6 o 7 micro-nazioni come era fino a 150 anni fa.
Magari con una crisi di tipo yugoslavo: la guerra, gli attentati, l’economia distrutta, i titoli di stato delle micro-regioni che nessuno all’estero vorrà mai comprare.
C’è da mettere in guardia da un triste epilogo del genere.
C’è da salvare l’unità, la pace, la prosperità che abbiamo raggiunto in 150 anni.
Ma l’Italia non morirà mai.

Perché l’Italia è quella differenza senza la quale la civiltà del mondo non sarebbe ciò che è.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
PAOLO GIUNTA LA SPADA

(continua)


17 marzo 2011

Unità d'Italia. Seconda parte.

W l'Italia!




Fratelli d'Italia,
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte:
l'Italia chiamò.

Noi fummo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte:
l'Italia chiamò,

Uniamoci, amiamoci;
L'unione e l'amore
Rivelano ai popoli
Le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio:
Uniti con Dio,
Chi vincer ci può?
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte:
l'Italia chiamò!

Dall'Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core e la mano;
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte:
l'Italia chiamò!

Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé, col Cosacco,
Ma il cor le bruciò
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte:
l'Italia chiamò!


(continua)

1 marzo 2011

Unità d'Italia. Prima parte.

Gli italiani hanno talento e voglia di fare. Lavorano sodo e sono buoni risparmiatori. Molte realtà in Italia, pubbliche o private che siano, funzionano.
Nel Logistics Performance Index del mondo siamo al 22esimo posto nel mondo:

http://info.worldbank.org/etools/tradesurvey/mode1b.asp#ranking

Considerando che siamo la settima economia del mondo si potrebbe fare molto meglio, si vede che c’è uno scarto tra la realtà della gente che lavora e il sistema Paese che non è sempre all’altezza, ma non è un cattivo risultato.
Le cose vanno molto peggio quando passiamo a considerare la libertà di commercio e di investimento imprenditoriale. Qui le cose si fanno difficili per due ragioni. Primo: le leggi sono troppe e troppo complicate, inoltre “fatta la legge trovato l’inganno” per cui spesso l’italiano che apre un’attività vive col dubbio perenne che quello che è garantito stasera non lo sia domani mattina. O che quello che garantisce il tribunale sia smentito dal TAR. O che quello che sancisce il TAR sia cancellato da una sanatoria, da un cambio improvviso di governo amministrativo o da un nuovo decreto salvaproroghe, o da una “legge stralcio”.
Come diceva Prezzolini nel 1924 in Italia nulla è definitivo fuorché il provvisorio.
La cosa da ridere, per non piangere, è che per semplificare le leggi il governo Berlusconi ha inventato un nuovo Ministero: il Ministero della Semplificazione. Il ministro della Semplificazione, disciplina che non ha eguali al mondo, è il leghista Calderoli, famoso per aver promulgato a suo tempo quella che lui stesso definì ”un’autentica porcata”, cioè la legge elettorale italiana attualmente in vigore che, chissà perché, non è stata ancora né semplificata, né abolita. In nessun Paese del mondo esiste un ministero simile in cui impiegati, dirigenti, ministro, segretarie e sottosegretari mangiano a sbafo e sperperano il denaro pubblico. Che fanno tutto il giorno? Semplificano?
Forse hanno semplificato la loro vita con uffici e stipendi a carico dei contribuenti italiani, la nostra vita è rimasta uguale.
Infatti nella classifica mondiale della libertà d’investimento e commercio siamo messi male. Eppure il governo del premier ha sempre promesso libertà d’impresa.
In realtà le promesse fatte non sono state mai mantenute.
The Heritage Foundation, un’associazione conservatrice americana decisamente ispirata ai principi del mercato e della libertà dell’iniziativa privata, ogni anno studia i parametri relativi alle opportunità economiche presenti in ogni nazione. Nella classifica mondiale l’Italia è 87esima:

http://www.heritage.org/index/Ranking

e la libertà d’impresa nel nostro Paese è considerata simile o peggiore a quella di Paesi poveri come il Burkina-Faso, lo Zambia o il Madagascar.
La situazione per l’Italia diventa drammatica quando andiamo a considerare la cultura universitaria. Nel ranking mondiale le università italiane non ci sono proprio, non vengono inserite neanche nelle graduatorie: edifici fatiscenti e in stato d’abbandono, ricerca scientifica povera anche a causa delle scarse risorse e dei professori assunti con le raccomandazioni, poche pubblicazioni, livello mediocre.
Non c’è una sola Università italiana nelle prime 200 del mondo:

http://www.timeshighereducation.co.uk/world-university-rankings/2010-2011/top-200.html

Nei primi 5 posti figurano:
1) Università di Harvard
2) California Institute of Technology
3) Massachussets Institute of Technology
4) Università di Stanford
5) Università di Princeton
Ma la situazione non cambia se volgiamo lo sguardo alla sola Europa:

http://www.timeshighereducation.co.uk/world-university-rankings/2010-2011/europe.html

Sfogliate la lista delle 82 migliori università europee: non ne trovate una italiana.
I primi 10 posti della classifica europea delle Università:
1) Università di Cambridge
2) Università di Oxford
3) Imperial College of London
4) Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo
5) University College di Londra
6) Ecole Polytechnique di Parigi
7) Università di Edimburgo
8) Ecole Normal Superieure di Parigi
9) A pari merito Università di Gottingen in Germania e Karolinska Institute di Svezia
Seguono le università di Losanna, Monaco di Baviera, Bristol.
A questo punto io ho immaginato che almeno nel campo dell’arte e delle scienze umanistiche, campi in cui l’Italia vanta una storia di primo piano universalmente nota, le nostre Università fossero presenti. No, nella lista delle 50 migliori università del mondo nel campo dell’arte e delle facoltà umanistiche non ce n’è neanche una italiana.

http://www.timeshighereducation.co.uk/world-university-rankings/2010-2011/arts-and-humanities.html

Si può supporre che le organizzazioni che compilano queste classifiche, essendo in prevalenza inglesi o americane, tendano a favorire le proprie istituzioni accademiche e che, inoltre, in un mondo che parla inglese le università anglosassoni siano favorite rispetto alle altre. Tutto vero, ma nella lista ci sono università francesi, spagnole, danesi, austriache, tedesche, giapponesi, di Singapore, di Hong Kong, svedesi, olandesi, irlandesi, australiane. Italiane zero.

La stessa desolazione si avverte quando si va a vedere la classifica della libertà di stampa nel mondo:

http://www.freedomhouse.org/template.cfm?page=251&year=2010

L’Italia è classificata come un Paese a libertà di stampa limitata e sta nel gruppo di nazioni come la Turchia, la Colombia, il Kenya, la Mongolia, il Mozambico e la Namibia dove televisioni e giornali sono ampiamente controllati o fortemente condizionati dal premier al potere.
L’Italia nel planisfero mondiale, il Map of Press Freedom, è dipinta con il colore giallo, come quasi tutti i paesi africani e molte semidittature. Il rapporto annuale sull’Italia è interessante:

http://www.freedomhouse.org/template.cfm?page=251&country=7846&year=2010

Se consideriamo tutto questo emerge uno stridente contrasto tra quello che è la struttura Italia, il sistema Paese, che è malandato, arretrato, mal amministrato e non molto libero, e quello che sono gli italiani.
Pensate: siamo la settima economia del mondo. Se fosse incluso il “sommerso” ( almeno il 30 o 40% del GPT) forse saremmo la quinta o sesta economia del pianeta.
Come fa un popolo ad aver costruito la settima economia del mondo con poche risorse naturali, molte montagne brulle e poche pianure, diverse sventure storiche, con le leggi che si ritrova, le istituzioni antiquate, i governi incapaci come quello attuale e i falsi semplificatori che mangiano a sbafo e a danno del cittadino elettore?
Non esiste una nazione al mondo che abbia la seguente contraddizione: parametri da nazione del Terzo Mondo, da una parte, e un’economia così significativamente incisiva e brillante dall’altra parte (GDP 1.888 bn di US dollars con reddito pro-capite di 31.320 US $ anno; fonte: World Bank, gennaio 2011).

La realtà è che gli italiani sanno produrre ricchezza nonostante le irresponsabilità di ieri e di oggi delle classi dirigenti. Lavorano sodo e sono creativi, le nonne e le mamme lavorano, cucinano e risparmiano; quasi tutti, se possono, fanno il doppio e terzo lavoro; chi può fa l’orto, i nonni sopperiscono alla mancanza di asili, i figli aiutano i padri. E’ il miracolo della famiglia italiana, la famiglia azienda che lavora e produce.
Siamo un popolo di formiche che lavora, investe e mette da parte.
Se la crisi dei mutui non ha devastato le basi finanziarie della società italiana è perché gli italiani hanno buon senso e non fanno “il passo più lungo della gamba”.

Però hanno un difetto. Abituati a forme di oppressione secolari sono talmente dotati di senso di adattamento che tollerano anche situazioni che non andrebbero accettate e, purtroppo, invece di abbattere il sistema che li opprime, cercano di scendere a patti con esso per trarne qualche beneficio, piccolo o grande che sia. Sulle tasse evase e non dichiarate, o sull’abusivismo edilizio, Nord e Sud, Destra e Sinistra, cattolici e laici, sono molto più simili di quanto si voglia far credere.
Tangentopoli scoppiò a Milano. Non dare la ricevuta fiscale è comportamento di tanti: dell’idraulico e dell’architetto, del dentista e del ginecologo, del barista e del falegname, del notaio e del ristoratore, dell’elettricista e del cardiologo, del muratore, del negoziante e dell’ingegnere.
A Milano e a Roma, a Vicenza e a Palermo, a Napoli e a Firenze, a Torino e a Cagliari. Le differenze, quando e se ci sono, sono minori rispetto alle omogeneità.
Quante volte, dopo 10 minuti di visita effettuata, si sente la segretaria del medico specialistico che dice senza neanche un po’ di vergogna: “150 euro, prego; se vuole la ricevuta fiscale 200 euro. La vuole?”
E si sa: in Italia tutti "tengono famiglia" e quindi tutti chiedono lo “sconto”.
Il “tengo famiglia” è la metafora nazionale del “familismo amorale” per cui invece di denunciare il capo corrotto e il suo comportamento disonesto, si diventa complici e ruffiani pur di salvaguardare gli interessi di famiglia.
Si fa finta di niente, ci si inventa qualcosa che plachi la coscienza. Si dice, mentendo, “così fan tutti”.
Del resto se in Italia, paese cattolico per eccellenza, la Chiesa non dice e non denuncia niente ed è tradizionalmente d’accordo con classi dirigenti corrotte e disoneste, come l’attuale, perché gli italiani, che la religione la seguono, sono battezzati, comunicati e vanno in chiesa la domenica, dovrebbero fare gli eroi?
Da quale Dio dovrebbero essere aiutati?
Ed ecco che un popolo brillante e laborioso si scopre al contempo bigotto e conservatore e si ritrova nel confuso stato di declino attuale.

(continua)

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PAOLO GIUNTA LA SPADA