28 maggio 2010

Maschio e Femmina in Africa.



Mutande

A casa di Nenella, dove abbiamo passato gran parte dell’autunno africano, vige la regola che il personale di servizio non lava le mutande da donna. Ne derivava il fatto che non disponendo ancora di una collaboratrice familiare e non potendo chiedere aiuto a mia moglie, occupata dal suo lavoro a tempo pieno, o a mia figlia, perché è una bambina piccola, il compito toccava a me.
Senza dilungarmi in dettagli scabrosi posso dire che lavare le mutande delle ragazze presuppone già una certa dose di applicazione e buona volontà, ma arrivavo alla fine del compito abbastanza agevolmente.
Il problema era quando con una dozzina di capi di abbigliamento intimo femminile dovevo recarmi alla zona dello stenditoio attraversando tutto il giardino della bella casa in stile coloniale. I fili per i panni erano posti esattamente davanti agli alloggi del personale. Notai subito lo sguardo di aperto disprezzo e penosa commiserazione con cui mi guardavano i due giardinieri, i due guardiani, il cuoco. Né le cose andavano meglio con le domestiche che mi regalavano espressioni sufficienti di incredulità.
La situazione era aggravata dal fatto che i fili sporchi andavano puliti e mancavano sempre le mollette: la precarietà della situazione, tipica di una casa in Africa, rendeva più penosa la mia performance come stenditore.
Inoltre, sottoposto allo sguardo fisso di tutte quelle persone, non riuscivo a sottrarmi a qualche imbarazzo soprattutto quando sul filo appendevo qualche slip di pizzo o di seta, pieno di fiorellini a colori o nastrini civettuoli. “Che penseranno di noi?” Pensavo guardando quelle incarnazioni vaporose della vanità femminile. Il peggio era quando il giardiniere più antipatico vedendo che avevo esaurito le mollette me ne porgeva una prendendola dal retro del magazzino e si ritraeva subito come per dire “io con questa cosa che stai facendo non c’entro nulla”.
Io, un po’ schizzinoso, pensavo invece alle sue mani non pulite e guardavo con scetticismo la molletta. Pareva brutto rilavarla?
Quando cadeva uno slip sulla terra rossa tutti stavano lì a guardare che cosa avrei fatto: la sciacqua? come la sciacqua? dove la sciacqua? Ogni mio gesto era seguito con somma attenzione.
Imparai a uscire per stendere le mutande quando non c’era nessuno, verso le 3.00 del pomeriggio col sole a picco, e Raja, l’ospite indiano che lavora all’ONU, mi faceva da “palo” e mi diceva quando erano tutti fuori per servizio.
Ridevamo tutti e due e sgattaiolavo rapido verso i fili dei panni, ma poi scoprivo che eran tutti là, appiattiti sotto l’unico filo d’ombra dietro al caseggiato ad aspettare il rito pomeridiano delle mutande stese.
Piano piano iniziai a fregarmene dei loro sguardi di commiserazione e presi a guardare tutti negli occhi orgoglioso del mio lavoro di marito fedele e padre premuroso. Non mi sentivo meno maschio tosto solo perché stendevo slip rosa neri e bianchi col fiocchetto di lato.
Alla fine era diventato un piacere andare a stendere i panni perché mi permetteva di osservare gli altri, di vedere che cosa sarebbe successo ogni volta e di guardare, come fa un antropologo, le persone intorno a me e le loro reazioni.
Anche a casa mia, adesso che ho una casa definitiva, devo vincere l’incredulità della ragazza che ci aiuta in casa quando dico che cucino io, che non si deve preoccupare del pranzo e della cena.
In giardino le donne di servizio dei nostri vicini di casa indiani mi guardano con incredulità quando mi vedono passare il sapone sui colletti delle camicie più delicate che Cristina, non avendo tempo, mi affida.
Anch’io vorrei più tempo per studiare e scrivere i miei saggi, ma mi sacrifico per il bene della famiglia. Le diverse forme di lavoro domestico sono sempre state intercambiabili nella mia famiglia e quello che conta per noi è il bene comune, la gioia di vivere insieme e rinnovare ogni giorno il miracolo dell’amore.

Donne e uomini in Africa

Il concetto di matrimonio in Africa è molto diverso e l’idea di virilità in questo continente non permette ad un uomo di lavare gli slip della donna che ama.
Molti uomini che lavorano ogni giorno a Nairobi non si portano dietro un panino da mangiare nella pausa-pranzo della giornata di lavoro. Se non si siedono ad un bar e non c’è una donna a servirli non è pranzo, secondo loro. Molte cose in Africa non cambiano mai perché la condizione di servitù che vivono le donne permette a ogni uomo, anche al più povero e scannato, di sentirsi un re quando torna a casa.
Le donne sono semischiave, tolgono le scarpe al marito di ritorno a casa, lo lavano, gli servono il cibo e spesso non mangiano con lui, ma da sole in un luogo relegato della casa. Spesso subiscono le violenze del marito, sono battute e stuprate senza che questo costituisca motivo di denuncia alla polizia soprattutto nelle regioni rurali.
In molti Paesi africani le bambine subiscono diverse mutilazioni sessuali. Una è l’infibulazione, cioè la cucitura/chiusura della vagina con ago e filo, al fine di “preservare” la verginità della ragazza fino al giorno del matrimonio. Un’altra è la clitoridectomia, cioè l’asportazione totale della clitoride, al fine di ridurre drasticamente il piacere sessuale della ragazza e il suo desiderio di erotismo. Molto spesso le due operazioni sono fatte insieme, una non esclude l’altra. Sono condotte senza il rispetto di alcuna norma d’igiene e senza alcuna anestesia, spesso finiscono in setticemia con la morte della bambina e, per tutte quelle che sopravvivono, il dolore non cessa con la fine dell’intervento e gravi sono i disturbi e i dolori acuti anche a distanza di anni.
L’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che il fenomeno è diffuso in varie regioni del mondo, ma in Africa assume proporzioni drammatiche.
Sono mutilate il 97% delle ragazze in Egitto, 99% in Guinea, 92% in Mali, 89% in Eritrea, 90% in Sudan, 80% in Etiopia, 71% in Mauritania, 32% in Kenya, 18% in Tanzania e mancano i dati sulla Somalia dove si presume le FMG (Female Genital Mutilations) siano altissime.
La pratica delle mutilazioni, in queste regioni, fa parte indifferentemente del mondo islamico, cristiano o animistico. Inoltre sono le stesse ragazze a richiedere tali interventi che hanno spesso un carattere fortemente ritualizzato e iniziatico e costituiscono un momento importante della vita della ragazza, della famiglia e della comunità. Le adolescenti dicono: “l’ha fatto mia nonna, l’ha fatto mia madre e lo farò anch’io”. Senza il “rito della mutilazione”, che è spesso vissuto con un misto di gioia e rassegnazione dalle ragazze, il matrimonio non è consentito e l’ingresso nella società rimane precluso. E’ evidente come tali interventi sottintendano un carattere ricattatorio nei confronti delle giovani africane: ”se non stai alle regole sei espulsa dal villaggio, non sarai mai una donna, sei morta, appestata, nessuno ti vorrà”.
Ho parlato con centinaia di donne del problema e, escluse le giovani studentesse di città che sono le uniche a vivere in famiglie che non seguono tali “tradizioni”, tutte ritengono sia un problema della società occidentale, non loro; si rifiutano di cambiare cultura e ci propongono sostanzialmente di occuparci d’altro.
In un contesto del genere sono destinate all’insuccesso tutte le politiche imposte dall’esterno che non siano il prodotto di un confronto nuovo sui ruoli sessuali in Africa, sulla formazione della famiglia, sulle libertà all’interno del matrimonio e sui diritti nella società civile.
Molte ragazze da me intervistate, insieme ai loro genitori, pensano che sia una forma di colonialismo voler imporre la nostra cultura europea e “occidentale” alle loro antiche tradizioni.
E’ evidente anche l’incapacità del femminismo europeo e americano contemporaneo nel dare chiavi di lettura del fenomeno che viene descritto come una barbarie, e senz’altro lo è, ma non viene studiato nelle sue implicazioni sociali, religiose e culturali.
Anche le femministe africane sembrano ricalcare le politiche delle loro sorelle occidentali e il loro apporto è prevalentemente finalizzato ad una crescita del peso intellettuale delle donne nel continente.
Le donne africane, dimenticate dal mondo intero, continuano a svolgere tutti i lavori più pesanti e non sono pari all’uomo neanche all’interno del matrimonio. Gli uomini africani praticano largamente la poligamia con il consenso delle loro stesse donne e con l’appoggio delle istituzioni. Quello che conta per un uomo è disporre del denaro per convincere i genitori di una ragazza a concederla in sposa.
L’early marriage, cioè la bambina data in sposa da piccola a prescindere dal suo consenso o dalla sua capacità di capire qualcosa, è purtroppo diffusissimo. Così vengono “vendute” bimbe di 6, 8, 10 anni.
Nelle regioni rurali l’accordo di matrimonio prevede il pagamento in beni naturali: bestiame, in genere.
Ad Aora Chiodo, regione South Nyanza, in Kenya, vive Mzee Ancentus Akuku, 90 anni. Ha sposato la prima moglie nel 1939. Nel 1950 aveva 18 mogli. Nel corso degli anni ne ha sposate 130, 85 le ha tenute, 45 le ha cacciate. Ha dichiarato di non essere mai stato uno di quelli che paga una o due mucche soltanto, lui pagava diciotto o venti mucche ad ogni matrimonio, è un uomo abbastanza ricco. E’ affetto da HIV.
La descrizione di una buona moglie fatta da un uomo africano di una regione rurale assomiglia alla figura di una serva/schiava/badante: “deve fare figli possibilmente maschi, portare acqua e legna, cucinare, cambiare i panni ai bambini, pulirmi dai pidocchi, lavarmi i piedi”.
Soltanto nelle grandi città l’emancipazione delle donne è andata avanti e ha permesso, ma solo all’interno delle classi sociali più elevate, una forma diversa di relazione tra uomo e donna, ma anche in città sono numerose le donne che tentano di “sfuggire” ad un nuovo matrimonio dopo essere state abbandonate dal primo compagno o marito.
Per intervenire sull’educazione bisognerebbe investire nelle scuole. In Africa, dove più del 60% della popolazione è sotto i 21 anni, le scuole sono poche e non hanno docenti in numero sufficiente.
Le classi delle scuole elementari possono essere costituite da 80 o 90 bambini e i maestri, pagati poco, si limitano a dare ordini e ad insegnare qualche rudimento a memoria.
Le buone scuole superiori, tutte private e quasi sempre straniere, sono solo per i figli degli espatriati bianchi e dei ricchi figli di ministri e imprenditori.
Le Università versano spesso in uno stato di degrado e abbandono e chi può va all’estero a studiare, quasi sempre nel Paese che in passato ha avuto il ruolo della potenza che ha colonizzato e depredato.

Cartelli

A Mombasa, nel dicembre 2009, ho visto un cartello stradale gigante. C’era un uomo, dall’aspetto comune, ma abbastanza distinto e la scritta: “Sono un buon padre di famiglia e ogni tanto faccio il test dell’HIV” Cioè, come dire, si dà per scontato che un uomo si trastulli con tutte le donne che desidera, ma insomma, signori uomini, se siete dei padri responsabili fatevi il test ogni tanto così, forse, non impestate le mogli!... Se questa è la Pubblicità Progresso in Kenya le mogli si possono rassegnare!
A Nairobi, marzo 2010, altro cartellone gigante a Giggiri: “Investire nell’educazione delle bambine significa fare la società!” So che il cartello voleva dire: mandate le figlie a scuola, non lasciatele a “fare la calza”, però il messaggio può risultare ambiguo. L’accento posto sull’educazione femminile sembra trascurare il fatto che, in tutta l’Africa, siano proprio i maschi a dover ricevere un’educazione nuova e di segno radicalmente diverso. Non si potrà mai cambiare la condizione delle donne se non si cambiano i pregiudizi maschili sulle donne.
La causa prevalente dell’insuccesso scolastico dei giovani maschi a scuola è il “Machismo” stesso. Quando insegnavo ad Addis Abeba seguivo con altri colleghi il progetto sperimentale dell’Istituto “G. Galilei”. Avevo l’incarico di monitorare la crescita educativa e cognitiva degli allievi delle Scuole Italiane dalla Elementare al Superiore. Molti bambini etiopici apparivano eccellenti alla scuola elementare e alla scuola media anche se già all’ultimo anno della media qualcosa cambiava in peggio. Improvvisamente i maschi non facevano più domande al professore, non intervenivano più a discussioni sulla letteratura o la poesia, si sottraevano al dialogo educativo. Alla domanda “Perché?” rispondevano che erano cose da femmina, che gli uomini non parlano di poesia, letteratura o arte. Che la scuola, in fondo, non è importante. Al modello della maestra subentrava il modello maschile costituito dall’austero padre, dai fratelli più grandi, dagli amici del padre e dei fratelli.
Sono stati pubblicati studi nel Regno Unito che coincidono con le mie osservazioni e segnalano lo stesso fenomeno per i figli dei Pakistani e degli immigrati delle fasce sociali più basse. Ottimi nella Primary School i figli di asiatici e africani poveri non studiano più al superiore. Non è così per le ragazze, in Inghilterra come in Africa, che con più forti motivazioni di riscatto sociale continuano nel loro impegno, anzi lo accrescono consapevoli del fatto che solo attraverso lo studio potranno trovare un posto di lavoro e una maggiore autonomia dai maschi.
Del resto si deve considerare la cultura d’origine rurale di molta gioventù maschile in Africa. Quando si chiede ai pastori Turkana chi è “un vero uomo” la risposta che danno più frequentemente è: “un vero uomo è colui che uccide il suo nemico”; la seconda risposta è “uno che fa razzie e cattura il bestiame”.
Con un’impostazione culturale dì siffatta specie è difficile pensare di inviare i bambini a scuola e farli studiare arte e filosofia.
I maschi africani assomigliano a quello che erano i maschi italiani di una volta. Tramontato il mito del latin-lover molte signore americane ed europee, italiane comprese, cercano avventure con i beach boys delle località di mare in Kenya: i ragazzi scambiano le loro prestazioni sessuali con i soldi, la promessa di un matrimonio, la dubbia ascesa sociale coincidente con il rituale “viaggio-premio” in Europa.

7 maggio 2010

In Italia le cose vanno bene. In Italia le cose stanno andando veramente bene. La crisi greca ci fa un baffo. Gli incentivi all’economia funzionano bene e così anche io ho deciso di comprare casa. Infatti con le ultime misure prese dal Governo quando compri casa non sai neanche chi te la paga, arrivano mazzette di assegni circolari e si fa il rogito dal notaio che neanche te ne accorgi ed è un piacere. Non ho ancora capito se chi paga la casa sceglie il posto o se il luogo dove comprare la casa posso anche deciderlo io, in tal caso mi piacerebbe una bella vista su un monumento storico. Ne sto parlando con un amico che fa l’insegnante, che ha un mutuo da pagare di circa mezzo secolo, e dice che un’ottantina di assegni circolari li accetterebbe anche per uno scantinato in periferia, figurarsi in centro. Non so se tutto ciò rientra nel famoso piano casa, in Italia esiste l’interpretazione: le leggi vengono fatte, ma poi vengono sempre interpretate e le interpretazioni sono sempre infinite. Ho detto al mio amico che sicuramente qualcuno pagherà il suo mutuo. Volete sapere chi pagherà il suo mutuo? Vorrei saperlo anch’io.