31 maggio 2016

La modernità e la civiltà


Capita sempre più spesso che il termine modernità si confonda con il termine civiltà. 
Sono due cose completamente diverse. 
La modernità è un carattere tipico del Novecento e ha prodotto mutazioni profonde della vita, ma ha condotto anche a contraddizioni laceranti e drammatiche. 
L'esaltazione militarista e l'organizzazione razionale delle armi, la tecnologia scientifica messa al servizio della violenza, la catastrofe di due guerre mondiali, i razionali progetti di annientamento dell'umanità visti ad Auschwitz e in altri luoghi del pianeta: la modernità  non ha prodotto solo splendide invenzioni, ma anche un sempre più organico asservimento degli esseri umani a nuove e più sofisticate forme di potere. 
Anche oggi, in un periodo che per l'Italia e l'Europa è di pace, la modernità mostra i suoi frutti avvelenati nello stravolgimento costante dei valori più alti della civiltà.
Civiltà è prestare soccorso ad una ragazza che lo chiede, pensate al caso della ragazza assassinata a Roma, perchè civiltà è coraggio, umanità, lealtà.
La modernità invece ci fa vivere come tanti sconosciuti che vanno sempre di fretta.
Civiltà è vivere in città costruite a misura d'uomo, con piani regolatori pensati, come usava Biagio Rossetti nella Ferrara della massima espressione umanistica e rinascimentale, per far vivere bene i suoi abitanti.
Oggi è civiltà tutelare e valorizzare il centro storico e la piazza, la meravigliosa invenzione dell'architettura italiana che è la piazza.
La modernità invece spinge a costruire orridi centri commerciali tutti uguali.
Dove ogni persona è ridotta e omologata a mero consumatore.
La modernità crea quartieri dormitorio in periferie squallide, fabbriche del brutto che producono forme di vita brutte e alienanti.
La libertà è civiltà; invece il consumismo a cui l'economia vuole asservirci sempre di più è modernità.
La modernità crea nuovi profili sociali per nuovi mercati, nuovi bisogni per nuovi prodotti, nuovi falsi valori per nuovi comportamenti.
Così è nata l'ossessione dell'immagine, della bellezza artificiale, così nascono ogni giorno false mode che vendono nuove forme di intrattenimento, illusioni, presunzioni di pseudo-felicità.
La civiltà è lo studio, la riflessione, il rispetto, il confronto; ma la modernità predica l'urlo, l'odio, la battuta di scherno.
La civiltà è studio e riflessione.
La modernità dice invece che la scuola, la cultura, l'arte, la letteratura non servono a niente.
La civiltà produce uomini colti e consapevoli.
La modernità impone di far finta di essere sani, o di essere soddisfatti di vivere come schiavi, come servi.
La civiltà è un treno per i pendolari che è comodo e arriva puntuale.
La modernità invece è il treno ad alta velocità di cui i politici possono vantarsi.
La civiltà è l'utilizzo virtuoso degli spazi sociali e sanitari al servizio dei cittadini.
La modernità è costruire un nuovo ospedale dopo aver lasciato all'abbandono quelli che funzionano bene.
Mi chiedo: oggi i contadini marchigiani, che salvarono ebrei e inglesi nel 1943/1944, hanno la stessa umanità dei loro padri, o sono diventati moderni di quella modernità che è antitetica alle più grandi conquiste della civiltà umana?


© RIPRODUZIONE RISERVATA Paolo Giunta La Spada



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22 maggio 2016

La Costituzione della Repubblica



Sulla riforma costituzionale sta purtroppo prevalendo la guerra tra fazioni avverse. Non si ragiona sulla sostanza dei cambiamenti della nostra Carta costituzionale o sull'identità politica del nostro Paese.
Lo stesso premier ha dato un'impostazione politica al referendum ed è difficile per i comuni cittadini farsi un'idea concreta del voto di ottobre al di là delle "sparate" televisive e giornalistiche. 
Allora pubblico oggi quello che nessun quotidiano italiano ha pubblicato, cioè il testo integrale di un gruppo di costituzionalisti contrari al cambiamento della Costituzione.
Preciso, per i tifosi delle fazioni avverse, che prima di esprimersi bisognerebbe conoscere e capire.

Ecco l’appello sottoscritto dai costituzionalisti contrari alla riforma costituzionale approvata dalle Camere e che verrà sottoposta a ottobre al voto referendario. Chi ne condivide le motivazioni voterà “NO” alla riforma. 

Ecco il testo integrale dell’appello:
Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche.
Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.
  1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.
  2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei Deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico­partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria ­ anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.
  3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.
  4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia ­ che non possono mai essere separate con un taglio netto ­ ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.
  5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.
  6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuroche preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.
  7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede ­ su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).
Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma
Firmato: Francesco Amirante, magistrato; Vittorio Angiolini, Università di Milano Statale; Luca Antonini, Università di Padova; Antonio Baldassarre, Università LUISS di Roma; Sergio Bartole, Università di Trieste Ernesto Bettinelli, Università di Pavia Franco Bile, Magistrato Paolo Caretti, Università di Firenze Lorenza Carlassare, Università di Padova Francesco Paolo Casavola, Università di Napoli Federico II Enzo Cheli, Università di Firenze Riccardo Chieppa, Magistrato Cecilia Corsi, Università di Firenze Antonio D’Andrea, Università di Brescia Ugo De Siervo, Università di Firenze Mario Dogliani, Università di Torino Gianmaria Flick, Università LUISS di Roma Franco Gallo, Università LUISS di Roma Silvio Gambino, Università della Calabria Mario Gorlani, Università di Brescia Stefano Grassi, Università di Firenze Enrico Grosso, Università di Torino Riccardo Guastini, Università di Genova Giovanni Guiglia, Università di Verona Fulco Lanchester, Università di Roma La Sapienza Sergio Lariccia, Università di Roma La Sapienza Donatella Loprieno, Università della Calabria, Joerg Luther, Università Piemonte orientale Paolo Maddalena, Magistrato Maurizio Malo, Università di Padova Andrea Manzella, Università LUISS di Roma Anna Marzanati, Università di Milano Bicocca Luigi Mazzella, Avvocato dello Stato Alessandro Mazzitelli, Università della Calabria Stefano Merlini, Università di Firenze Costantino Murgia, Università di Cagliari Guido Neppi Modona, Università di Torino Walter Nocito, Università della Calabria Valerio Onida, Università di Milano Statale Saulle Panizza, Università di Pisa Maurizio Pedrazza Gorlero, Università di Verona Barbara Pezzini, Università di Bergamo Alfonso Quaranta, Magistrato Saverio Regasto, Università di Brescia Giancarlo Rolla, Università di Genova Roberto Romboli, Università di Pisa Claudio Rossano, Università di Roma La Sapienza Fernando Santosuosso, Magistrato Giovanni Tarli Barbieri, Università di Firenze Roberto Toniatti, Università di Trento Romano Vaccarella, Università di Roma La Sapienza Filippo Vari, Università Europea di Roma Luigi Ventura, Università di Catanzaro Maria Paola Viviani Schlein, Università dell’Insubria Roberto Zaccaria, Università di Firenze Gustavo Zagrebelsky, Università di Torino