31 ottobre 2010

Dall'Isola di Lamu, Kenya

La guerra di gennaio 2011

Isola di Lamu, Kenya. Il proprietario dell’albergo di Shela non è preoccupato per la costruzione del nuovo porto. Un po’, io credo, per non creare l’idea che Lamu sia “finita” da un punto di vista turistico-ambientale, un po’ perché pensa che i tempi siano lunghi come spesso succede in Africa. Proprio qui a Lamu sarà costruito uno dei più grandi porti di tutta l’Africa. L’accordo è stato siglato dal Presidente del Kenya Mwai Kibaki e dal premier cinese Hu Jintao. Il progetto è già in fase esecutiva e a Manda Bay ci sono già ruspe e geometri all’opera. Perché vogliono costruire questo porto in un arcipelago così ricco di storia e con un mare dall’acqua immacolata? Per capirlo bisogna fare un salto di quasi mille chilometri e spostare la nostra attenzione a Juba, Sud Sudan. Lì e in tutto il Sud Sudan il 9 gennaio 2011 ci sarà un referendum per decidere l’indipendenza del Sud dal resto del paese. Dopo 50 anni di invasioni e persecuzioni da parte del governo di Khartoum è facile supporre che la totalità della popolazione (escluso il 10% dei mussulmani) voti per l’indipendenza. Il Sud Sudan avrà sicuramente l’appoggio delle Nazioni Unite con poche eccezioni (l’attuale processo di pace in Sudan è monitorato dall’ONU). Ci saranno grandi festeggiamenti e i guerriglieri del Fronte di Liberazione Popolare del Sudan spareranno in aria per la vittoria conseguita dopo decenni di guerra. Anche la vasta comunità cristiana del Sud Sudan (25% della popolazione) tirerà un sospiro di sollievo dopo anni di stragi, attacchi, persecuzioni. Nel Sud prevalentemente animista e cristiano tornerà la libertà di culto. L’indipendenza segnerà la fine del tentativo di islamizzazione forzata del territorio. La guerra condotta dal regime fondamentalista islamico di Khartoum a danno delle popolazioni del Sud è stato un tentativo di genocidio: 2.500.000 di morti e un milione di profughi e rifugiati. Il nuovo stato sarà quindi riconosciuto dalle nazioni del mondo, in primis da quelle occidentali. Il nuovo stato sarà anche molto corteggiato perchè il Sud Sudan produce quasi tutto il petrolio sudanese ed è ricchissimo di giacimenti e minerali preziosi. Tutto bene, dunque? Apparentemente con l’indipendenza e la pace arriverà anche maggiore benessere. A Juba, capitale del Sud Sudan, arriveranno capitali da tutto il mondo. I proventi del petrolio e delle altre attività di estrazione di minerali arricchiranno le casse dello stato nascente e creeranno opportunità di investimento e profitto. A Juba arriveranno uomini d’affari, imprenditori, mediatori, cooperanti, diplomatici per le nuove rappresentanze. Ma c’è la probabilità che Juba si riempia anche di spie, agenti, emissari e addetti militari che non hanno alcuna intenzione di appoggiare l’indipendenza del nuovo Paese. C’è un rilevante dettaglio: il petrolio del Sud per essere esportato passa per il Sudan centrale e finisce a Port Sudan. Se ci sarà l’indipendenza del Sud è arduo pensare che il resto del paese permetta il passaggio nel proprio territorio senza battere ciglio. Non sarà semplice trovare un accordo e non è questo che ci si può aspettare dal presidente del governo di Khartoum Omar Al Bashir. Il generale Bashir prese il potere nel suo Paese nel 1989 con un colpo di stato, chiuse tutti i giornali e partiti politici assumendo il totale controllo di ogni potere legislativo ed esecutivo. Alleato del Fronte Islamico Nazionale instaurò la Sharia nel 1991 e da allora ha condotto una politica di sterminio nei confronti dei cristiani del Sud. Il 14 luglio 2008 è stato incriminato dalla Corte Penale Internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in particolare contro le popolazioni inermi del Darfur. Il 4 marzo 2009 è stato emesso un mandato di cattura nei suoi confronti, ma la Lega Araba, molti Paesi africani e la Cina hanno criticato il provvedimento rendendolo nei fatti non esecutivo. Lo scorso agosto, infatti, Bashir era presente a Nairobi alla cerimonia ufficiale per la nuova costituzione keniana, ma le autorità non hanno dato l’ordine di arrestarlo. Bashir è uomo temuto perché si conoscono le sue capacità di organizzare movimenti di guerriglia in ogni paese africano. Si dice che il premier etiopico Melles Zennawi abbia dichiarato: “Andrebbe arrestato, ma chiunque lo chieda il giorno dopo ha la guerra alle frontiere”. E’ logico pensare, quindi, che il futuro governo del Sud Sudan si organizzi per raffinare e commercializzare gas e petrolio costruendo una linea alternativa a Port Sudan. Il progetto di un polo ferroviario stradale con relativa oil pipe line è una realtà. Coinvolgerà Sud Sudan, Uganda, Kenya ed Etiopia. Tra l’altro da Juba a Port Sudan sono 800 chilometri mentre da Juba a Lamu sono solo 725 chilometri. C’è già l’appoggio pieno degli americani e dei cinesi. L’azienda che ha i principali contratti di costruzione in affidamento è la tedesca ThyseenKrupp Gft Gleistechicnik mentre l’americana Ayr Logistics gestirà i finanziamenti. La costruzione coinvolgerà le economie dei quattro paesi interessati. L’Etiopia sta pensando di costruire un asse stradale e di trasporto petrolio collegato a Lamu visto che Gibuti è prossimo alla paralisi e gli sbocchi al mare di Somalia ed Eritrea sono inservibili o inopportuni (Assab è inutilizzabile dall’Etiopia dopo la guerra del 2000 e i porti somali sono sotto il controllo delle corti islamiche o dei pirati). Il porto di Lamu non è quindi solo un’opzione keniana, ma un chiaro esempio di economia globale. Dopo il 9 gennaio 2011 il progetto diventerà ufficiale e, da un punto di vista politico oltre che economico, troverà sponsor certi nella Banca Mondiale, nell’amministrazione Obama, in Europa e nel mondo occidentale, nell’India e nella Cina. All’asse Juba-Addis Abeba-Nairobi si contrapporrà l’asse Khartoum-Asmara-Al Quaeda Somalia. E’ facile pensare che, oltre a Khartoum, anche Al-Quaeda tenterà di contrastare lo sbocco al mare del nuovo stato animista e cristiano e lo sviluppo di paesi alleati con l’Occidente come il Kenya e l’Etiopia. L’attuale è un periodo di studio e conteggio delle forze in campo: il referendum di gennaio farà scoppiare le contraddizioni e la situazione nel corso del 2011 sarà difficile, se non impossibile, da controllare. Il conflitto non avrà un carattere locale, ma per la posta in gioco, la vicinanza geografica ai conflitti asiatici e i collegamenti politici e religiosi sarà di rilievo internazionale. Per l’Italia, come per le altre nazioni occidentali, sarà impossibile non schierarsi. Essere amici di tutti, come spesso fanno i governi italiani in politica estera, significa non essere veramente amici di nessuno. Dare soldi a pioggia nel Corno d’Africa, attraverso la nostra Cooperazione allo sviluppo, specie in tempi di crisi, non è conveniente né per il contribuente italiano, né per le popolazioni africane che dovrebbero essere beneficiate. Spesso i popoli vengono depredati da dittatori spietati che usano gli aiuti internazionali per rafforzare il proprio potere personale.


Lo sviluppo sostenibile

L’opera faraonica strada/ferrovia/oil pipe line da Juba a Lamu fa venire in mente il tema dello sviluppo sostenibile in Africa. A parte i tratti di ferrovia in Uganda che potranno essere facilmente collegati al progetto (da Gulu e Tororo in Uganda ad Eldoret in Kenya) il resto è da costruire. Il tracciato è già fatto e sta nella conformazione naturale del territorio, non si potrà attraversare il Lago Turkana, si aggirerà il Monte Kenya per scendere a valle lungo il tracciato del fiume Tana. Gli Etiopici, invece, non potendo attraversare l’alta valle del fiume Omo rafforzeranno il valico di Moyale e la strada che da Mega va fino ad Awasa. E’ evidente che opere di siffatta dimensione e importanza si prestano a considerazioni sul tema dello sviluppo sostenibile. E’ ragionevole ritenere che l’economia delle quattro macroregioni (Sud Sudan, Uganda, Kenya, Etiopia) possa trarre beneficio e impulso allo sviluppo. E’ anche logico pensare che un’opera del genere possa modificare e in parte distruggere delicati ecosistemi naturali che sono unici al mondo. E’ facile immaginare che i cantieri coinvolgeranno le popolazioni locali: molti troveranno lavoro, ma altrettanti perderanno pascoli e terre, acque e territorio. Ci saranno deportazioni forzate e blocchi. Mi viene da pensare ai Borana dell’Etiopia, ai Pokot del Kenya, ai Nuer e ai Dinka del Sudan, solo per fare qualche esempio. La loro vita sarà probabilmente sacrificata alle esigenze dello sviluppo globale, al profitto delle grandi multinazionali cinesi, indiane, americane, tedesche. L’altro giorno ho firmato una petizione che chiede al governo della Tanzania di non costruire un'autostrada all’interno del Parco Nazionale del Serengeti. Certamente anche la strada Lamu-Juba susciterà reazioni e rivolte da parte delle popolazioni locali e dei gruppi ambientalisti. A Lamu sorgerà il più grande porto dell’East Africa per il trasporto container e saranno costruite le piattaforme petrolifere per l’attracco delle petroliere e il trasferimento del gas e del petrolio proveniente dal Sud Sudan. Moderne autostrade a 4 corsie collegheranno il Sud Sudan, l’Uganda, l’Etiopia e il Kenya permettendo il commercio di idrocarburi e l’approvvigionamento di carburante nelle macroaree interessate e l’export in tutto il mondo. Lo scambio commerciale tra le regioni godrà di un grande impulso: frutta delle terre Oromo, banane delle piantagioni ugandesi, bestiame dell’altopiano, caffè, marmo, grano, legname, materiali da costruzione provenienti dalla Cina e dall’India, derivati chimici da idrocarburi andranno a favorire lo sviluppo di regioni remote da sempre chiuse allo sviluppo. D’altra parte le splendide spiagge lambite dall’acqua cristallina di un mare smeraldo a Manda e a Lamu scompariranno o saranno ricoperte di altri colori. I dhow, i pescherecci in stile locale con le prue di legno scolpito che assicurano la pesca e il trasporto dei passeggeri da un’isola all’altra dell’arcipelago, diventeranno un ricordo sbiadito nelle foto fatte oggi dai turisti. La fauna e la flora del mare saranno distrutte dagli scarichi di catrame e combustibile.

Scontato per molti europei dire di no a un certo tipo di sviluppo, ma altrettanto facile dimenticare che il petrolio per le automobili che accendiamo ogni giorno viene in parte considerevole dall’Africa come i minerali che servono ai nostri portatili e cellulari. E’ facile anche dimenticare che noi europei abbiamo distrutto il nostro continente tagliando l’immensa foresta che ricopriva, tanti secoli addietro, l’intera Europa e che fu sacrificata prima al pascolo e all’agricoltura e poi all’urbanizzazione. Facile per noi dire agli africani o ai brasiliani: “Salviamo le foreste”, ma quello che rivendicano i popoli poveri è lo sviluppo economico e il benessere che noi abbiamo già largamente conseguito anche se al prezzo di immani devastazioni ambientali e antropologiche.

La pressione demografica e la forza spietata del capitalismo globale stanno aprendo una nuova pagina, tanto affascinante quanto triste e drammatica, della storia d’Africa.

Lo penso con lucido e disincantato realismo, ma anche con una vena di rimpianto per l’Africa che non c’è più o che va scomparendo. Lo penso mentre il caicco, abilmente guidato da Abdul, ci porta a vele spiegate da un’isola all’altra dell’arcipelago di Lamu. Che ne pensi, gli chiedo, del progetto del nuovo porto? “Ci spoglierà” usa queste parole, “delle nostre risorse, della vita stessa. Tutti i pescatori” mi dice, “sono contrari, noi stiamo bene così con i turisti e la pesca, il nuovo porto per il petrolio non ci serve, ci opporremo, Allah è grande”.
Riproduzione Riservata Paolo Giunta La Spada

28 ottobre 2010

Isola di Lamu, Kenya.


L’atterraggio sulla pista di Lamu è un po’ ruvido. Il piccolo bimotore ad elica da 36 posti frena fragorosamente e prende un po’ di inclinazione. L’aeroporto: una casetta di legno e una tettoia per il sole. C’è una stanza-moschea per le preghiere. Un bar con gli infissi scrostati serve su un unico tavolo poche bevande prese da una ghiacciaia posata per terra. All’arrivo qualche facchino, alcune donne velate, uomini d’affari indiani in consunti abiti grigi, una coppia di distinte signore europee e due ragazze keniane con cappello di paglia. Ci aspetta il giovane Abdul, le tre valigie vengono spinte su una carretta fino al molo. Mi aspettavo più caldo, invece una piacevole brezza spira dal mare. Una vecchia imbarcazione ci porta a Shela in meno di mezz’ora. L’arcipelago di Lamu è composto da tre isole principali, Lamu, Pate e Manda, più un mucchio di isolotti minori. A Lamu non ci sono automobili o altri mezzi motorizzati. Si va a piedi, con le barche o con gli asini. La città, nel 2001, è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità e appare come il più antico borgo di architettura Swahili dell’East Africa. Qui, molte case sono costruite in pietra di corallo e legno di mangrovia e nascondono al proprio interno cortili lussureggianti e giardini fioriti. Le porte e i balconi d’epoca sono scolpiti e decorati. L’aspetto generale è quello di un animato villaggio, per metà arabo e per metà africano, in riva al mare. Arriviamo per la visita al mattino presto, la giornata è bella, la folla al molo invadente e variopinta. La rada è piena di dhow, le antiche imbarcazioni arabe a vela, vecchi caicchi con la caratteristica prua dipinta con scritte colorate. Dal molo alla piazza sono pochi passi, lo sportello dell’Immigration Office di tanti anni fa, il vecchio forte dipinto di giallo ocra. La scena pare una cartolina sbiadita degli anni trenta: i vecchi intunicati di bianco chiacchierano all’ombra di due alberi secolari, il fez sul capo. Giovani scamiciati spingono cigolanti carrette cariche di mercanzia: taniche di plastica o di latta, bombole di gas, legna, tubi di ferro. Strilla il venditore di giornali. Passa qualche vecchia bicicletta trillante di campanello, alcuni ragazzi reclamizzano con cantilene le proprie merci nelle ceste: rossi manghi, verdi lime, banane, piccoli dolci smielati, aglio, cipolle, samosa fritti. Gli asini trottano a gruppi, trasportano ogni genere di merce, dalle pietre per le costruzioni al pesce fresco. Rendono faticoso il passaggio nei vicoli più stretti. Molte donne sono velate di nero anche sugli occhi. Si sente il loro profumo forte da bigiotteria. Altre s’abbigliano all’africana con i colori del proprio clan. Alcune vestono all’occidentale, ma con stile sobrio. Il mixer tra cultura Bantu, Araba, Persiana, Indiana ed Europea è evidente. 37 moschee, una chiesa cattolica, qualche tempio protestante. I colori dei buganvillea sono rosa cupo, lilla, bianco, giallo arancio. Gran parte delle strade sono di sabbia, senza pavimento. C’è odore di sporco, folate di panni lavati stesi al sole, spezie, pesce fritto, coriandolo, cumino, aria di porto che ristagna, sabbia umida. La periferia dell’abitato è percorsa dai canali di scolo delle case, le condizioni generali sono di sporcizia, ovunque c’è penuria d’acqua e l’anno scorso, con la stagione secca, ci sono stati diversi casi di colera.

Nel pomeriggio il nostro dhow fila a vele spiegate nella laguna, verso la costa est di Manda e Lamu dove l’oceano è aperto e si raggiunge la barriera corallina. Prima della sera navighiamo nei canali di mangrovie, il vento è cessato, la barca è quasi ferma nel silenzio.
Per tornare a Shela riprendiamo il mare aperto e la vela si gonfia del vento forte e degli abbagli del sole che tramonta. Tocchiamo terra col cielo ancora pallido. E’ l’ora della preghiera. Sulla spiaggia si snoda la coda degli uomini che vanno a pregare; gli ultimi pescatori s’affrettano a casa con le ceste piene di piccoli tonni; le ragazze, il capo coperto, sciamano vocianti dopo un giorno di scuola.

5 ottobre 2010

Storie di Mari e Migranti.

Quest’estate abbiamo scoperto una triste pagina della nostra politica estera. La pioggia di fuoco abbattutasi sul peschereccio italiano in acque internazionali proveniva da un’imbarcazione italiana, cioè pagata dal contribuente italiano, e con ben sei militi della nostra Guardia di Finanza che hanno fatto da spettatori immobili a un attacco armato da parte degli amici libici. Abbiamo scoperto, in sostanza, che noi italiani paghiamo degli stranieri che in un battello, anche quello comprato e regalato da noi, sparano a pescatori italiani che lavorano! La prima spiegazione riportata dal TG1 è stata la seguente: il Ministro Frattini: “i libici hanno sparato in aria però poi hanno colpito gli italiani”. Il Ministro Maroni, invece, disse che avrebbe aperto un’inchiesta i cui risultati a tutt’oggi non è dato di conoscere. Secondo me sarebbe il caso di azzerare e rivedere ogni accordo con la Libia a partire dal diritto dei nostri connazionali di pescare in acque che libiche non sono. Erano a carico dei contribuenti italiani anche le escort, pagate dal governo 80 euro a testa e scelte non si sa come, per ascoltare un discorso di propaganda di Gheddafi in visita in Italia. Un evento del genere, cioè un dittatore che si esibisce in uno show organizzato da un paese europeo e con pubblico prezzolato, non sarebbe neppure ipotizzabile in una qualsiasi nazione liberale, europea o occidentale. I due fatti messi insieme fanno capire quanto sia debole e confusa una politica estera che invece, in una congiuntura così grave, dovrebbe essere chiara e coerente. Stupisce che gli elettori italiani di destra riescano a sopportare lo spettacolo di un’’”italietta” da cinecommedia che prende “schiaffi in faccia” non da grandi potenze, ma da protagonisti molto discutibili della politica arabo-mediterranea. Un altro esempio della confusione che regna in Italia è dato dalle relazioni con l’Eritrea. Il 18 settembre scorso era l’anniversario della feroce repressione che il regime del Presidente Isayas Afawork, al potere da 19 anni, ha condotto contro i dissidenti, quasi tutti eroi della trentennale guerra di indipendenza contro l’Etiopia. Il giorno 18 settembre 2001, infatti, scompariva nelle carceri di Asmara Petros Salomon, il mitico comandante dell’EPLF, poi ministro della Difesa e degli Esteri nei primi anni dell’indipendenza. Di lui e di molti altri intellettuali e cittadini eritrei in carcere non si sa più nulla. Sono scomparsi dopo l’arresto e la detenzione in container nascosti nel deserto eritreo. L’Organizzazione delle Nazione Unite ha chiesto di visitare i luoghi di detenzione senza ricevere alcuna risposta. L’Eritrea è anche responsabile di finanziare Al-Sheebab e le corti religiose islamiche che seminano attentati in Etiopia e in Somalia e che, per loro stessa ammissione, fanno ormai parte del fronte antioccidentale legato ad Al-Quaeda e agli altri gruppi della Jiaad islamica che intendono destabilizzare l’intero Corno d’Africa. Il governo eritreo è stato denunciato dall' EAJA (Eastern Africa Journalists Association) per l’arresto e la tortura dei giornalisti eritrei colpevoli di non pensarla come il Presidente Afawork che vieta l’ingresso in Eritrea anche ai giornalisti italiani ed europei. L’8 e 9 luglio 2010 i cittadini eritrei in Italia hanno protestato davanti all’Ambasciata della Libia a Roma e presso le Prefetture italiane perché molti eritrei che giungono nel nostro Paese per sfuggire al regime di Isaya Afawork vengono inspiegabilmente respinti in Libia dove scompaiono per sempre in campi di lavoro nel deserto. Recentemente altri 250 eritrei, in fuga dalle persecuzioni subite nel proprio Paese, sono stati rinchiusi nella prigione libica di Brak in gravissime condizioni di detenzione. Il 23 dicembre 2009 la U.N. Security Council, con la risoluzione numero 1907, ha accusato l’Eritrea di armare i terroristi somali di Al-Shabab e Hizbul Islam e di sostenere Al-Quaeda. L’O.N.U. ha sanzionato l’Eritrea con un embargo, peraltro parziale, all’acquisto di armi. L’O.N.U., la Croce Rossa Internazionale, l’Associazione per la Tutela dei Diritti Umani del Popolo Eritreo, Amnesty International, Human Right Watch e Reporters Without Borders hanno fatto appello alla comunità internazionale affinché il regime eritreo cessi la sua politica repressiva e di sostegno al terrorismo islamico. Nonostante tutto ciò il governo italiano intrattiene ottimi rapporti con Isaya Afawork e il suo regime. Isaya è ottimo amico del premier Berlusconi e va spesso in vacanza in Italia. Il suo regime è finanziato dall’Italia e dalla cooperazione italiana. I suoi collaboratori si sono incontrati con i nostri ministri e politici anche dopo l’erogazione delle sanzioni O.N.U..
A Nairobi in Kenya, a fine agosto 2010, sono state trovate borse con mappe di attentati terroristici e arrestati una dozzina di uomini che progettavano di commettere attentati. Tra gli obiettivi c’era anche l’International House, il grattacielo che ospita una radio somala, diverse rappresentanze internazionali, la Cooperazione Italiana allo Sviluppo e l’Ambasciata d’Italia a Nairobi. Stupisce che il governo della Repubblica Italiana, cioè di una nazione europea che si definisce liberale e democratica, abbia per amici regimi dittatoriali e che tali amicizie non portino ad alcun risultato utile per il popolo italiano come si è visto nel caso dei pescatori di Mazara del Vallo mitragliati dai libici in acque internazionali.
E’ evidente che quando una politica estera è così fragile, ingiusta e ambigua la nazione che la produce non può sperare di ottenere risultati utili nè per i propri cittadini, nè sul piano di una strategia che sia vincente in ambito internazionale. L’Italia ha bisogno di relazioni forti con i Paesi arabi e africani per ragioni culturali, sociali ed economiche e questo vale, a maggior ragione, per due delle sue ex-colonie come la Libia e l’Eritrea. Ma l’Italia non dovrebbe mai venir meno al perseguimento degli interessi nazionali e ai principi liberali su cui è basata la sua identità storica e costituzionale.