31 dicembre 2011

29 dicembre 2011

Vivere pericolosamente.

Nella sociobiologia sono stati studiati i comportamenti degli animali, in particolare le società degli insetti, dei volatili e delle oche; dei mammiferi, in particolare dei lupi, e specialmente dei mammiferi del gradino più evoluto: gibboni, orango, gorilla e scimpanzè.
Questi animali, mi affatica chiamarli animali per quanto assomigliano agli esseri umani per struttura del sangue e cromosomi, hanno comportamenti molto simili ai nostri. I gibboni sono molto fedeli alla vita di coppia e sono quelli che tradiscono più di rado il proprio partner, gli scimpanzè ospitano diversi gruppi gay, tutti si muovono alla ricerca di due cose esattamente come facevano gli ominidi di qualche milione di anni fa: cercano cibo e “femmine”.
Quando trovano queste due “risorse” si “fermano” in un territorio. Quando le risorse iniziano a scarseggiare ripartono alla ricerca di un nuovo spazio. Se muovendosi incontrano altri gruppi concorrenti alla ricerca delle risorse si fanno la guerra. Il gruppo di scimmie più agguerrito distrugge o scaccia il gruppo più debole e occupa la nuova terra. Questa non è un’opinione: è legge biologica osservabile in natura infinite volte.
La possibilità dell’equilibrio pacifico e della stabilità è data dall’abbondanza delle risorse all’interno di un dato territorio. Gli ominidi di milioni di anni fa funzionavano allo stesso modo. Anche le società di cacciatori e raccoglitori di 100.000 o 10.000 anni fa erano uguali e perfino quelle di oggi, dove l’habitat è rimasto immutato, funzionano così. Abbiamo imparato da decenni di studi antropologici come funzionano le “società dell’abbondanza”, le società di cacciatori e raccoglitori come, per fare un esempio celebre, le comunità dei Boscimani Kung del Kalahari. Società ricche di risorse naturali. Immaginiamo la “spesa” quotidiana di una “coppia” di Boscimani. Lei ha già preparato la colazione cucinando dei tuberi con farine di cereali selvatici e lasciando in infusione semi ed erbe. Lui va a caccia e a raccogliere. In poche ore trova una faraona, dozzine di uova di diversi uccelli, tuberi, patate, cereali spontanei, erbe benefiche, semi e frutti di diverso genere. Ogni giorno la scena si ripete: la raccolta e la caccia variano, ma si concludono sempre con esiti abbondanti e ricchi. Il mondo antico, scarsamente popolato, era un mondo che disponeva di risorse in abbondanza pur non possedendo tecnologia.
Negli ultimi cinquemila anni, ma in particolare negli ultimi due o tre secoli la situazione è radicalmente mutata.

Gli agricoltori hanno costantemente bruciato le foreste per impossessarsi di nuove terre da coltivare. I pastori hanno fatto la stessa cosa per avere pascoli. L’industria, anche a causa dell’espansione coloniale, ha distrutto e distrugge foreste per cercare petrolio, gas, diamanti, stagno, ferro, oro, nichel e carbone. Così i popoli cacciatori e raccoglitori si sono estinti a centinaia negli ultimi duecento anni, o sopravvivono a stento in habitat sempre più ristretti e impoveriti. In molti casi sono stati assimilati dalla “civiltà” che li ha utilizzati prima come schiavi e poi prevalentemente come guardiani, guide per battute di caccia, operai, carpentieri acrobati.
Gli esseri umani sono animali, che siano figli di Dio o no, e sono soggetti alle medesime leggi biologiche.
Cercano risorse.
Quando le trovano diventano stanziali.
Quando le risorse terminano ripartono. Quando incontrano nella loro ricerca altri gruppi concorrenti sviluppano conflitti e guerre. La storia ci ha mostrato come l’educazione, la cultura e la religione abbiano cercato di dare un contrasto o una disciplina, o al limite una spiegazione, a una teoria dei bisogni che appare fin troppo banale e desolante, ma a volte le stesse culture e religioni si sono trasformate in ideologie di conquista e di giustificazione del dominio a danno dei più deboli.
Crociate e guerre sante, ondate migratorie, ricerca di nuove risorse e guerre sono parte integrante della storia dell’umanità e della incessante competizione per il potere.
Oggi, come scrivevo in un post di qualche mese fa, siamo sette miliardi in un mondo che ha, rispetto al passato, meno risorse e più tecnologia. Le risorse sono bruciate per sempre, la tecnologia è in gran parte al servizio di chi la usa per fare profitto. Si potrebbe dire che il mondo di oggi, con 7 miliardi di individui, è assai più povero di quello di tanto tempo fa in cui abitavano pochi milioni di esseri umani.
In un contesto come quello attuale è inspiegabile come le religioni di tutto il mondo, compresa quella cattolica, continuino a “santificare” il “fare figli” quando si dovrebbe educare ad una genitorialità assai più responsabile soprattutto i popoli che non dispongono di mezzi per nutrire, vestire, educare i propri figli. Le autorità cristiane e islamiche spieghino che senso ha vietare i metodi contraccettivi come il condom se poi, come informano le statistiche, miliardi di bambini sono straziati dalla fame e muoiono nei primi mesi o anni di vita, non hanno medicine o acqua potabile, non vanno a scuola, non dispongono di mezzi educativi per formare liberamente la propria personalità.
Altrettanto inspiegabile, in un mondo pieno di bambini abbandonati e di creature senza famiglia, che nelle società più ricche si facciano costose cure ormonali e complicate fecondazioni “assistite”, con l’incomprensibile appoggio delle Sinistre, con banche del liquido seminale dove perfino single possono comprare l’inseminazione che possa dare il figlio secondo il proprio desiderio o capriccio: con capelli e occhi del colore dettato dal proprio personale razzismo.
Torniamo al rapporto tra esseri umani e risorse.
Un mondo più fittamente popolato e con risorse sempre più depauperate conduce alla guerra.
Non basta l’ONU, anzi si è visto come nel caso della guerra in Irak o in Libia l’ONU possa essere facilmente manipolato; non basta la Chiesa con il Papa che il giorno di Natale ha coraggiosamente invocato lo Spirito Santo per fermare violenze che non si sono fermate né quel giorno, né oggi.

In realtà servirebbe ridurre l’incremento demografico e per farlo senza violenza, come libera scelta, ci vorrebbe un programma mondiale di sostegno alla salute con una completa informazione demografica e la diffusione dei più semplici e sani metodi contraccettivi.
Ma questo non viene fatto perchè la sanità mondiale è controllata dalle aziende farmaceutiche che pensano solo al profitto.
Un esempio? La lebbra. Nel mondo non si fa quasi più ricerca sulla lebbra: non perché sia stata debellata, al contrario il mondo è pieno di lebbrosi e si verificano circa 700.000 nuovi casi all’anno nel mondo, secondo i dati OMS. Il fatto è che la lebbra colpisce la gente poverissima che vive costantemente nella sporcizia e non dispone di acqua per lavarsi: è una malattia dei poveri.
Si sa che basta farsi la doccia o lavarsi le mani per non infettarsi di lebbra anche dopo aver avuto un contatto con un lebbroso, lo sanno bene le suore che assistono i malati nei lebbrosari. Per questa ragione la lebbra non esiste quasi più in Europa dove, da tempo, c’è l’acqua corrente e il bagno nelle case. L’industria farmaceutica non è interessata alla lebbra perché anche se producesse un farmaco nei paesi poveri nessuno avrebbe i soldi per comprarlo. Così milioni di lebbrosi muoiono dimenticati da tutti. Alle multinazionali del farmaco conviene molto di più produrre il Viagra, roba da ricchi, o cercare un rimedio contro l’HIV, virus che colpisce anche le classi sociali più elevate.
Il secondo fattore che servirebbe è un nuovo modello di sviluppo eco-compatibile in grado di non bruciare le risorse del pianeta, ma di moltiplicarle per poterle redistribuire a chi non ne ha. In particolare il mondo si dovrebbe dotare di leggi in grado di tutelare il mondo marino limitando il trasporto del petrolio, proibendo la pesca e favorendo gli allevamenti ittici in acque pulite. Di leggi che siano in grado di proteggere la biodiversità e di combattere l’inquinamento prodotto da insediamenti industriali nocivi o da coltivazioni agricole a base di diserbanti. Leggi ed educazione culturale che ci guidino ad essere più responsabili nell’uso del territorio e delle sue risorse a cominciare dall’acqua.
Lo sviluppo ha bisogno anche di incentivi e nuove norme per chi produce in modo virtuoso. I divieti da soli non bastano, inoltre servono verifiche e controlli.
L’esempio dei terreni che in Africa vengono destinati alla produzione di bio-combustibile invece che a cereali per la fame dei popoli africani ci spiega che l’ecologia è un tasto che anche le grandi proprietà multinazionali stanno giocando per mascherare la consueta politica di spoliazione delle risorse dei più poveri.
E’ un circolo: scarse risorse- carestie- ondate migratorie mondiali- aumento della criminalità e dell’insicurezza sociale con conflitti politici sempre più elevati- instabilità, rivolte su larga scala e azioni repressive –crescita dell’intolleranza- crescita di ideologie aggressive e anti-minoranza –riduzione della proprietà dei media in poche mani- guerre regionali spesso a sfondo etnico-religioso-razziale e così via in una spirale senza fine.
C’è un terzo punto: solo con la crescita dell’istruzione in tutto il mondo si può sperare in un nuovo modello di sviluppo. Gran parte della popolazione mondiale non ha accesso al mondo della scuola. Molti vanno in scuole dove l’unico insegnamento impartito è quello religioso. Le ragazze continuano ad essere penalizzate ed escluse dagli studi. Nei paesi poveri la scuola primaria si limita ad alfabetizzare e a trasmettere precetti senza provvedere ad alcuna reale formazione umana. Assenza di mezzi, insegnanti sottopagati, 50 allievi per classe, scuole in mano al potere politico locale. Abbiamo bisogno di tagliare radicalmente le spese militari e di fare scuole di qualità in tutto il mondo, Italia compresa.

Abbiamo bisogno di tanta fiducia, di una bella dose di creatività e anche di un po’ di fortuna per sperare in un buon 2012.
Proviamoci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA Paolo Giunta La Spada

24 dicembre 2011

Il viaggio di Natale. Laikipia Plateau.

Lunedì 12 dicembre. E’ il Kenyatta Day, partiamo alle 7.20 dopo un buon caffè. In uscita da Nairobi sulla strada per Thika ci sono i cantieri per la costruzione del ring-road, ma a parte un po’ di sterrato imprevisto e alcune deviazioni, l’uscita dalla città è tranquilla e veloce. Alle 10.30, dopo 200 chilometri, siamo a Naniuki. Da qui inizia la strada che ci porta nel cuore dell’altopiano di Laikipia.
Faccio il pieno a Oil Lybia e prendo la “tarmac” road per Dol Dol. Dopo 9 km giro a destra direzione Naibor. Dopo 13 km raggiungo la “dirt” road e si continua su questa deserta “murrum” road per altri 11 km. Non ci sono cartelli, ma mi sono scritto le spiegazioni di Sophie e ho disegnato sulla mia agendina una piccola mappa.
Si arriva ad uno stagno pieno di mucche intente all'abbeveraggio; la strada si inerpica su una stretta collina e ridiscende sulla terra rossa. Su una pietra c’è inciso EL K, lì giro a sinistra: la debole traccia della strada non c’è più. Le piogge di novembre sono state disastrose e quando l’acqua s’è ritirata ha lasciato rovina e solchi profondi mezzo metro. Rimane una confusa pietraia su cui dovrò posizionare le ruote evitando di finire con una ruota al centro o ai lati della traccia: vista la profondità sarebbe la fine del viaggio e sarei costretto ad aspettare soccorsi e traino.
Guido con la massima concentrazione scartando ora a destra, ora a sinistra, o tirando dritto al centro. Tengo con forza il volante che tende ad andarsene dove vuole perché le ruote non trovano una sufficiente base d’appoggio e slittano sul fondo ripido.
Dopo 5 minuti molto “saltellanti” la pista diventa più regolare. Nei punti più bassi, in prossimità del fiume, c’è ancora molto fango.
Incontriamo giraffe, dik dik, zebre, scimmie, antilopi, impala, gazzelle. Continuiamo per altri 9 km senza incontrare nessuno.
El Karama è un’espressione araba; significa “Something of honour, an aswer to prayer, a treasured possession”. Il nome fu dato da Paddy Batelle, un soldato irlandese che dopo la prima guerra mondiale aveva tentato di stabilirsi qui. Per fare i 43 chilometri dissestati da Naniuki a El Karama Paddy impiegò due mesi con un mulo. Costruì una semplice casa e cominciò ad avere qualche mucca e animali da cortile. Nel 1925, dopo la morte per malaria della moglie, Paddy decise di tornare in Irlanda. Il ranch di El Karama passò agli Osborne che lo ingrandirono e svilupparono il corpo centrale della casa. Nel 1963, con l’indipendenza del Kenya dal dominio inglese, gli Osborne si trasferirono in Sud Africa ed El Karama fu comprato da Guy Grant, nato in Kenya nel 1928, figlio di Hugh Grant, soldato, in Kenya dal 1922, Console britannico del Sud Etiopia. Nel 1970 Guy sposò Lavinia, artista che descrive nei suoi dettagliati disegni la flora, la fauna e i paesaggi di Laikipia.
Ad accoglierci a El Karama è Sophie, la giovane e bionda moglie di Murray Grant, il figlio di Guy e Lavinia.
13, 14 e 15 dicembre. El.Karama è una proprietà di circa 6500 ettari. L’altitudine è 1700 metri. L’ambiente è quello dell’altopiano africano: praterie, savana, tratti di foresta nei pressi del fiume. Ospita 70 specie di mammiferi, inclusi leoni, leopardi, elefanti, ippopotami e bufali, la non comune in Africa Grevy’s zebra, la giraffa reticolata e l’African Hunting dog.

Le “bandas”, metà capanne di legno e pietre, metà tende, sono davanti al fiume: la vista è splendida. Siamo i soli visitatori. Non c’è elettricità, né generatore di corrente. La scarsa luce viene da lampadine solari a led nelle bandas, o da lampade a kerosene e candele nel “ristorante” all’aperto. Le bandas sono dotate di acqua calda grazie agli impianti solari, ma sono piuttosto spartane nonostante qualche tentativo di esotico lusso.
La sera nel piccolo ristorante l’addetto al servizio, Lovii, un simpatico signore di etnia Kalenjin, ci serve cene eccellenti con decine di mosche salsiccia lunghe tre centrimetri, i maschi delle safari ants, che si gettano sulle lampade, ronzano intorno ai bicchieri, planano sulla tovaglia. L’acqua da bere è piovana. Di giorno eserciti di formiche possono attaccare una tenda o un bagno. Nel bagno l’acqua è quella del fiume: torbida, scura, marrone. Facciamo una rapida rassegna degli amici e dei parenti che potrebbero essere contenti di passare le vacanze in un posto così : solo uno o due, a fatica, superano l’esame. Oltretutto El Karama è piuttosto caro, anche se molto meno di altri ranch di Laikipia.
Nel ranch, morto Guy, è rimasta Lavinia con pochi parenti. Ci sono 800 mucche da latte e il latte viene venduto tutti i giorni alle industrie di zona. Ci sono 15 cavalli, tutti gli animali da cortile, un orto ben fatto. A Laikipia caffè e thè non sono adatti, il terreno è in gran parte duro, pietroso e arido e ci sono molte annate di siccità. Le notti sono fredde. Nel ranch c’è un immenso bacino artificiale per raccogliere l’acqua e giganteschi serbatoi di riserva, la penuria d’acqua è un incubo. Si potrebbe coltivare il grano, ma costerebbe parecchio e non ci sarebbe una buona resa.

L’altopiano di Laikipia, a nord-ovest del Monte Kenya, è 9.500 chilometri quadrati: verdi praterie, macchie di durissime acacie spinose, gole di roccia, fiumi che si gonfiano con le piogge e si seccano nel periodo successivo. Due settimane fa il ranch è rimasto isolato a causa delle rovinose piogge di ottobre-novembre. Ora il terreno si sta asciugando e sta diventando duro come la pietra. La natura è selvaggia e incontaminata, senza alcun insediamento umano se si escludono i pochi ranch e qualche piccola comunità agricola autosufficiente. La pressione demografica che nei momenti di crisi pesa sui ricchi proprietari terrieri d’origine europea qui è assente. Nelle belle giornate si gode della linea elegante del Monte Kenya, 5.199 metri, grigio tagliente macchiato di neve bianca sul fondo blu del cielo.
La mattina all’alba andiamo in esplorazione in macchina; al mattino l’erba è troppo bagnata per camminarci sopra. Ci accompagna sempre Joseph, da 17 anni la guida di El Karama, di etnia Meru, un uomo alto e dal fisico asciutto, cortese e discreto, che conosce ogni pianta, uccello, insetto o mammifero di Laikipia. Ad una curva siamo ostacolati da tre leonesse che affamate ci sbarrano la strada: appaiono stanche e nervose, forse deluse dalla caccia andata male. Due si siedono sulla pista e non ci fanno più passare. Poi si alzano quando mi avvicino e ci guardano di traverso con la luce bassa del sole che illumina i loro sguardi felini. Scorrazziamo con la piccola jeep fino ad attraversare più volte il fiume, l’erba è più alta dell’auto e la pista non c’è, siamo noi a farla per la prima volta sull’umido del bush. Alcuni passaggi sono difficili perché tozzi arbusti di spinosissimi whistling thorn sono a poca distanza e non ci passo se non a rischio di strisciare irrimediabilmente le fiancate. Salite e discese su percorsi di erba alta, a volte di fango, o di pietra, o di terra rossa. Spengo il motore ogni volta che incontriamo un branco di elefanti, di giraffe, di bufali o di zebre. La vegetazione è brulla, ma diventa rigogliosa e piena di colori nei pressi del fiume che gorgoglia ricco di acque.
Tutti i giorni, due ore e mezza prima del tramonto del sole, andiamo a camminare. Joseph reca con sé il suo Remington con pallottole 458 Winchester Magnum Super Grade in grado di fermare un elefante o un bufalo che carica. Camminiamo sempre in silenzio. Joseph per primo, poi mia figlia, poi mia moglie, infine io. A volte seguiamo le tracce lasciate dagli animali, le impronte che ci dicono da quanto tempo è passato un leone o un leopardo, una gazzella o una giraffa. Il silenzio è interrotto dal consueto concerto di uccelli che a volte fanno frullare le ali spaventati dal nostro inaspettato arrivo. E’ un caleidoscopio di colori, incontri, emozioni che non ci fa mai sentire la fatica delle due ore e mezzo di camminata nell’erba alta o su sottili creste di roccia a fianco della pista. Ritorniamo sulle praterie dell’altopiano per incontrare centinaia di impala, antilopi, giraffe, faraone e struzzi in fila indiana, zebre e gazzelle e per goderci il tramonto con vista a 360 gradi. Torniamo alle bandas giusto in tempo per inebriarci dei bagliori di rosso e viola del sole scomparso e ascoltare il concerto di migliaia di uccelli e grilli.
Tra il safari del mattino e la camminata della sera c’è molto tempo per leggere, dipingere con i colori ad acqua, riposare, prendere il sole in riva al fiume, guardare le piccole creature nei pressi della nostra “banda”: scoiattoli dalla lunga coda rossa, uccelli multicolori e iguana variopinti… Mia figlia passa molto tempo nella bella casa di Sophie e Murray con i 7 cuccioli di Trixie, lo Staffordshire bull terrier di casa.

16 dicembre. Dopo l’ennesima meravigliosa colazione con la vista del fiume Naso Nyiro scintillante al sole dell’alba partiamo per Naniuki. Ancora giraffe, antilopi, zebre e una sorpresa: hanno messo a posto la strada che è diventata abbastanza facile. Non so se in me prevale la contentezza per lo scampato pericolo, o il rammarico per come ho fatto la strada all’andata. Rimangono sempre 30 chilometri di orrida e deserta tarmac road. Arriviamo a Naniuki. Davanti alla City Butchery e al Best Tea Room le donne Turkana, Samburu e Masai con i loro shukas bianchi e neri. Vicino alla moschea gruppi di Borana e di Somali. C’è animazione e molte code di auto che fanno benzina e alzano nugoli di polvere in manovra. Shell e Caltex l’hanno finita: a Oil Lybia ce l’hanno ancora e approfitto. Sulla strada di ritorno a Nairobi il cartello che indica che abbiamo appena passato l’Equatore. Faccio la spesa della frutta da una bella ragazza vestita con un kanga giallo ocra a fiori rosso porpora.

P. S.: agli amici che mi dicono che porto la mia famiglia sempre in posti avventurosi: la destinazione e il lodge sono stati scelti da mia moglie e io mi sono limitato a dare il mio consenso.

Buon Natale.

© RIPRODUZIONE RISERVATA Paolo Giunta La Spada