28 novembre 2010

La Pista di Terra Rossa. Seconda parte.


Scrivere qualcosa sull’Africa è impossibile. I luoghi comuni sull’Africa sono molteplici. Ne ho già parlato a proposito delle giornate missionarie della domenica in Italia e della crescita esponenziale di NGO e ONLUS che danno dell’Africa un’immagine distorta.

Anche l’industria del turismo vende un’Africa molto particolare e falsa: il mito della natura selvaggia e incontaminata con la gente che vive e balla felice, spiagge di bianca sabbia corallina, parchi naturali dove avventurarsi in romantici safari, mercati pittoreschi, laghi verde smeraldo, floride cascate d’acqua, montagne e foreste di un mondo incantato e ormai perduto in un occidente postmoderno e postindustrializzato.
Durante i Mondiali di Calcio del 2010 in Sud Africa l’immagine di ragazze africane in vestiti succinti predominava tristemente nelle pubblicità, a cura degli stessi enti turistici africani e delle locali agenzie di viaggio.

L’idea dell’esotico si intride delle filosofie rousseauviane del “buon selvaggio”, dei desideri tempestosi e sognanti dei Romantici europei, dei torbidi e perversi scritti dei decadenti francesi di fine Ottocento, delle mitiche e più moderne letture di Ernest Hemingway, Joseph Conrad, Karen Blixen. Nella letteratura scritta dai bianchi i nativi d’Africa sono solo comparse e i protagonisti sono colonizzatori, esploratori, cacciatori, avventurieri, coltivatrici di caffè provenienti dal mondo occidentale. Sono storie tanto affascinanti quanto ambigue e servono a capire perché siamo attratti dall’Africa, perché sono nati i falsi miti del “mal d’Africa”. Non servono a capire l’identità dei popoli africani, al contrario.

Respirano di gloria stentata le opere di Wole Soyinka, premio Nobel 1986, anno in cui vivevo nella sua Nigeria, o di Nagib Mahfuz, Nobel 1988, o di Nadine Gordimer, Nobel 1991, e non cambiano gli stereotipi della metacultura europea sull’Africa.

Nel giugno 2008 lo scrittore kenyano Binyavanga Wainaina pubblica il breve saggio “Come scrivere sull’Africa” (http://www.granta.com/Magazine/92/How-to-Write-about-Africa/Page-1). Il testo è satirico e parla dei luoghi comuni sull’Africa. E’ una sorta di manifesto, in forma di parodia, di ciò che bisogna evitare quando si parla di Africa. Nelle interviste seguite alla pubblicazione Wainaina racconta dei molti stranieri che gli inviano lettere per ottenere il suo illuminato giudizio, una licenza di scrittura, quasi il permesso di scrivere prima di pubblicare i propri saggi. Oggi quegli stessi occidentali che hanno “rubato” l’Africa, l’hanno schiavizzata, occupata, colonizzata, sezionata e inventata anche sul piano semiotico, forse tardivamente pentiti, hanno bisogno del permesso dei nativi, una sorta di patente del “politicamente corretto”.

Anche gli scrittori africani usano, quasi sempre, le lingue dei colonizzatori: l’inglese prevalentemente, poi il francese, ma anche il portoghese, lo spagnolo; a volte, di rado, l’italiano. Molto spesso vivono nella libertà del mondo occidentale: negli USA, nel Regno Unito, in Francia. Vincono premi e ricevono finanziamenti dal mondo culturale e accademico occidentale. Scrivono per un pubblico colto che spesso non è africano, ma straniero. E queste sono contraddizioni che bisogna saper cogliere. E un altro rischio che si corre quando si scrive di cose africane è quello di dare sempre ragione all’Africa e agli africani, non saper vedere le loro colpe come causa delle loro disgrazie. Colpe che sono numerose quasi quanto i delitti perpetrati dal mondo occidentale nei confronti degli africani.

L’Africa è composta da 53 nazioni. Ognuna è diversa dall’altra. Pensare che gli africani siano tutti uguali è un’assurdità. In Africa esistono più di duemila lingue e ogni popolo ha la sua specifica identità culturale: è difficile trovare un tratto comune a tutti. Molti autori pensano alla musica come ipotizza Richard Dowden nell’introduzione del suo libro “Africa. Altered states, ordinary miracles”, ma io non concordo. La musica cambia radicalmente da un paese all’altro.

Guardate l’Italia su una carta geografica. Separata dalle Alpi dal resto d’Europa la nostra penisola assomiglia a un ponte proteso nel Mediterraneo verso il continente africano. Con 20 minuti di aliscafo si va dall’Italia alle coste africane, a Tunisi. Eppure sappiamo tutto di New York, dei suoi yellow cabs, della Quinta Strada, del Rockfeller Center e non sappiamo niente del continente che ci sta davanti, a un volo di gabbiano, e che è grande cento volte l’Italia.

Devo fare un viaggio in macchina nei prossimi giorni. Ho in mente una deviazione dalla strada principale. Alcuni me la consigliano per la sua grande bellezza, altri mi dicono di lasciar perdere. Da una parte c’è la possibilità di attraversare una folta foresta vergine, sbucare su un vasto altopiano prima verdeggiante e poi roccioso, incontrare branchi di elefanti in libertà, vedere il mare dall’alto delle verdi colline e respirarne l’aria.

Dall’altra, se ha piovuto, la strada potrebbe essere un fiume, i guadi del fiume difficili, il fango un acquitrino insuperabile, il tratto nella foresta pieno di ostacoli, l’altopiano un deserto ostile dall’aria secca di polvere.

Sono cento chilometri di pista di terra rossa.


continua


RIPRODUZIONE RISERVATA
Paolo Giunta La Spada

18 novembre 2010

La pista di terra rossa.



In Italia si parla poco d’Africa. Ancora meno di africani: perfino la strage di Castel Volturno è stata dimenticata (http://www.nigrizia.it/sito/notizie_pagina.aspx?Id=10091&IdModule=1).

Nel nostro Paese l’Africa è rappresentata spesso da spot pubblicitari che invitano a fare beneficenza. In televisione o sui giornali compare l’immagine di un bambino povero e sfigato, magro, smunto, con gli occhi grandi e neri, e sotto alla foto il numero di un conto corrente. L’Africa è associata all’idea della povertà, della tragedia, della malattia e della morte, all’idea dell’aiuto: esistono migliaia di ONG, Associazioni non Governative, nate per “aiutare i bambini africani”. Provate a cercarle in Internet, presentano un’immagine distorta dell’Africa per rastrellare fondi che non sempre raggiungono le popolazioni africane.

Anche nelle chiese, la domenica, si chiedono i soldi per i missionari in Africa (sempre con la foto del bimbo con gli occhi grandi e smarriti).
E’ vero l’Africa è povera, terribilmente povera (http://paologls.blogspot.com/2010/02/le-terre-di-nessuno-la-teoria-delle.html).
E’ anche vero che i poveri, terribilmente poveri, esistono anche da noi, in Italia, e sono tanti. Ma di questi non si parla: fa male al governo, che preferisce nasconderli per vergogna, e fa male ai benpensanti che li ignorano per non disturbare la loro placida quiete sociale. Inoltre in quasi tutti i Paesi africani ci sono molti ricchi e soprattutto molta classe media che ha gli stessi problemi e spesso lo stesso stile di vita della nostra classe media (scuole pubbliche o private da scegliere per i figli, mutuo della casa da pagare, rate della macchina ogni mese). Per i media italiani ed europei la classe media africana non esiste, ci sono solo gli africani poveri da aiutare e un ricco dittatore da condannare. Tutti gli altri non ci sono.

Inoltre l’Africa non è affatto povera: oro, petrolio, diamanti, ferro, carbone, stagno, rame, coltan, legno, frutta, thè, caffè. Sono gli africani, spesso, ad essere poveri in una terra che invece è piuttosto ricca.

Il Nulla

L’Africa è associata anche all’idea del Nulla: un giorno a Roma nella mia scuola di Trastevere un allievo di 18 anni mi chiese, anno scolastico 2008/2009, “prof, ma come riesce a far benzina in Africa?” confermando che nell’immaginario di molti giovani l’Africa è la stessa descritta dai colonialisti della fine del XIX secolo, un luogo ostile e selvaggio senza civiltà, un NON SPAZIO senza alcuna forma di urbanizzazione, le città inesistenti, la benzina introvabile.

Non sapeva il nostro alunno (poi l’ha capito…) che in Africa esistono alcune tra le più grandi metropoli del pianeta: Lagos: 16 milioni di abitanti; Il Cairo 15 milioni; Kinshasa 8,5 milioni; Johannesburg e Khartoum 5 milioni ognuna; Nairobi, Addis Abeba e Alessandria d’Egitto 4 milioni ciascuna; Casablanca e Abidjan 3,5; e poi Kano, Ibadan e Città del Capo ciascuna con 3 milioni; Algeri, Dar es Salam, Dakar, Durban, Luanda, Conakry, Tripoli, Accra, Rabat, Kaduna, Maputo, Freetown, Lubumbashi, Brazzaville, Yaundé, Port Harcourt, Bamako, Antananarivo, Mogadiscio, Kampala e Maiduguri sono tutte metropoli gigantesche con milioni di abitanti.

Del resto molti italiani conservano l’immagine dell’Africa tramandata dalla propaganda colonialista del passato: una terra di selvaggi che aspettavano con ansia la civiltà per essere liberati dalla barbarie. Dell’Africa si è sempre saputo poco: “Hic sunt leones” scrivevano i cartografi del Medioevo sulle mappe dell’epoca non sapendo cos’altro immaginare.

Come si fa a negare che per i viaggiatori bianchi il fascino dell’Africa era costituito appunto dall’ignoto, dai grandi spazi inesplorati, dalla natura tanto ostile quanto incredibilmente bella? Ancora adesso le descrizioni dell’Africa si concentrano sulla grandezza sterminata delle savane, dei deserti e delle foreste, sui cieli gonfi di nuvole basse in continuo movimento, sulle inestricabili e variopinte forme di vegetazione attraversate a stento da anguste e misteriose piste di terra rossa.
Anche a me, a volte, capita di emozionarmi se guido su una pista di terra rossa nel mezzo di una fitta foresta.
Mi piace quando riesco a superare i tratti peggiori grazie al mio abbastanza consumato sistema di guida.
A volte mi attraversa la strada un dik-dik, un gruppo di struzzi mi corre accanto, incontro con lo sguardo rapido una famiglia di elefanti, fermo la macchina, spengo il motore, ascolto assorto i rumori del mondo naturale, cammino in silenzio per seguire un branco di animali e osservarlo da vicino, il cuore che batte. Studio con gli occhi arsi dalla polvere il fondo della pista cercando di capire se la macchia che vedo in fondo all’orizzonte è fango, o pietra, o ghiaia, o un tronco d’albero messo apposta per fermare la mia corsa e far finire il viaggio per sempre, proprio lì in quel punto.
Se la sagoma in fondo è un animale o una persona; un cacciatore di frodo, cioè uno che mi può accoppare, o un pastore con le sue capre e i cammelli. In un’Africa sempre più fatta di metropoli e modernità, shopping mall e collegamenti wifi, la pista solitaria di terra rossa, con i suoi colori e abbagli, è ancora un classico topos dell’avventura, l’incontro con l’ignoto, il gorgo di paura e adrenalina, la sfida con noi stessi.

Ma poi succede che di piste di terra rossa ne faccio così tante che alla fine perdono tutte il loro presunto fascino, dopo 8 ore di guida sogno l’asfalto, spero solo di non bucare, non vedo l’ora di arrivare al villaggio seguente, autoservizio, un piatto di nyama choma, doccia (calda o fredda che sia).

La pista di terra rossa è come la radio a batteria. Trovi ovunque, in Africa, anche nei luoghi più sperduti, un uomo con una radio a batteria. E poi un pick-up Toyota. E tanti bambini. Ogni cielo con la luce forte del sole e il giallo ocra delle case di terra nasconde il senso di una fisicità forte, colorata. Il sudore, il corpo, la maternità. Il mistero della natura ostile e benigna nello stesso tempo. Il destino. La lotta eroica e solitaria contro gli elementi e la rassegnazione al destino. Samba Traorè, il protagonista del film di Idrissa Ouedrago, è un uomo che si piega al destino con virilità. Il pick-up dei militari lo porta via sulla consueta pista di terra rossa. La moglie rimarrà fedele per sempre. L’amico si farà sparare per salvarlo.
In Africa i sentimenti sono roba seria. E anche le vendette.

continua

© RIPRODUZIONE RISERVATA PAOLO GIUNTA LA SPADA