Paolo Malatesta (a parte, di Francesca)
«Aver bisogno, per parlare,
di un’altra poesia.
Dover piangere, nel vostro
purgatorio di corpi, il paradiso
d’un Libro sacro e scortese, nero
d’inchiostro. Nel mortorio
dei giorni stare sospesi, dannandosi
al vero infinito del desiato riso.
La mia bufera non è allegorica
e il quinto canto è una diceria.
Se avete un’anima, gettatela via».
Prova a dormire con chi ti solletica
od alle due di notte accende il sole:
così l’inverno mite con le piante
che dure in balcone tenevano i tempi
alla nostra riservatezza spoglia,
ai mesi di sospetto e controvoglia,
alla nostra retta dissipazione.
Guarda: reggono a stento
alla provocazione, tornano quasi
alla rissa. Alterco primaverile
che nella nera estate poi si fissa.
Le giovani donne soffrono perché i mariti
d’estate le amano, a sera, quando
più a lungo le guardano nude:
e loro, stanche e accese, li amano pure.
E sentono tendersi il ventre,
spossessarsi di loro, e danno il sangue
in perdite lunghe o in siringhe
sterili, per tradursi in numeri,
e si aprono a sonde che alle viscere
designano urgenze. E la prima
sera d’autunno, nell’istante
in cui il cielo cede e si sgrana
nero, si svegliano magre e arrochite
e il dolore attento le presidia
salendo dai fori che alle pance
giovani e bianche hanno tolto
vita e insidie. Sussurrano allora
mai più, ed è insieme
l’infanzia che hanno perso e non dato,
l’inverno estraneo che supereranno
Tempo reale
Mia moglie è dal suo parrucchiere
seduta allo specchio, sotto mani
guantate in lattice che intrecciano
e sciolgono la scena della corta
capigliatura. Come labili punte
di lancia i capelli inumiditi
le segnano una tempia o si alzano
in cresta prima che il pettine
li rimetta all’ordine e all’età.
Lei increspa la fronte, accentra
le pupille cerchiate di neon,
si scruta: «Oh se la fine –
pensa, e non è più distratta –
fosse il mutamento di un’ora,
lo spezzare calcolato di un capello
e non questo svanire presunto
inosservabile, questa lavatura
delicata e infame. Fosse uno squillo
solenne, una catastrofe precisa
cui ci si rechi come a scadere».
Poi s’alza, in piega asciutta,
paga silenziosa, esce in strada
ed il cammino la riporta rapida.
Sento la chiave nella porta,
il passo chiaro, appena disperso,
che stringe ormai la penna all’ultimo verso.
Non è meno infinita del mare
la roccia, con il suo non parlare
tetro, materia delusa, implosa,
nel suo sgretolarsi, una rosa.
Paolo Febbraro
http://www.italian-poetry.org/febbraro_paolo.html
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