Grazie infinite, Titti, complimenti!
La mia famiglia ed io ci trasferimmo in Nigeria alla fine di Luglio 1979.
Dopo una propaganda di favole sull’Africa fu indetta una votazione familiare (2 adulti e 3 bambine): i primi quattro risultarono favorevoli, l’ultima contraria.
Fu cosí che partimmo da Catania il giorno dopo il mio
nono compleanno verso questo misterioso continente. Arrivammo a Lagos verso
mezzanotte e ci vollero altre 2 ore per passare le file dei documenti che
sembravano essere barriere insormontabili. Era venuto a prenderci un nigeriano
mandato dalla compagnia petrolifera per cui lavorava mio padre per aiutare a
gestire le varie pratiche: le nostre e quelle di una famiglia che avevamo
incontrato a Roma e che affrontava lo stesso viaggio. Questa, che pensavo fosse
l’accoglienza della prima volta, scoprii in seguito, era la prassi per ogni
arrivo ed ogni partenza. Ricordo ancora vivido quel primo viaggio ed il
tragitto in macchina dall’aeroporto verso la nuova incognita dimora.
Era stata un’ estate impegnata da
trasloco, impacchettamenti, giochi allegri, paura, eccitazione e campeggio a casa
dei nonni. Ad ufficializzare l’ imminente cambiamento c’erano stati, oltre al
passaporto, una serie di interminabili visite mediche e vaccini. La cosa piú dolorosa fu lasciare i nostri 3 cani e i nonni
materni, in quest’ ordine perché i cani avevano nuovi padroni e sapevamo che
con buone probabilitá non li avremmo
rivisti piú .
Le fiabe avevano colorito il
nostro immaginario di piccoli villaggi e grandi foreste in cui vivevano
elefanti, scimmie, leoni , antilopi e giraffe: il libro della giungla con le
pagine aperte nel continente africano. Quindi la nostra sorpresa fu grande
quando con gli occhi sgranati davanti ai finestrini vedemmo tutt’altro che
giungla mentre sentimmo tutto il caldo umido dell’Africa. Nei circa 30
kilometri che separano l’aeroporto di Ikeja da Victoria Island, l’ isolotto
dove avremmo abitato, attraversammo un bel pezzo di cittá passando per i megaponti della City dove si
ergevano illuminati dei maestosi grattacieli. Era notte e le baracche, in quel
tempo accampate vicino ai grattacieli e nelle prossimitá dei ponti, erano nascoste dal buio della notte,
non si vedevano villaggi e di animali neanche l’ombra. Decisamente il mio primo
impatto con lo shock culturale.
Arrivammo a casa durante la notte
e ad accoglierci a casa c’era un uomo del Benin. Etienne era un cuoco e un
aiuto domestico. Scoprii che in ogni casa di espatriati c’era uno stewart, cosi
si chiamavano gli aiuti domestici che di solito erano uomini, a volte anche due. Etienne aveva preparato
una deliziosa macedonia di agrumi con tutti gli spicchi separati e senza
pellicina e ce la offrí prima di
congedarsi e sparire.
Mangiammo la macedonia prima di andare a letto e ci
svegliammo sotto una nuova luce.
Avevamo una grande camera da
letto con 3 letti a castello e 3 scrivanie e il pavimento era ricoperto di una
calda moquette marrone.
In molte case di espatriati c’era la moquette e anche
l’aria condizionata, un condizionatore per camera.
Osservavo ogni cosa e ogni
persona ed erano, ad eccezione delle mie sorelle, tutte cose e persone nuove
perché anche i miei genitori sembravano diversi.
Descrissi in lunghe lettere ai
nonni la nuova vita cominciando dal cibo.
Il pane bianco e dolciastro venduto
nei tavolinetti agli angoli delle strade dalle mamy, infatti erano spesso donne, le nigeriane che
vendevano pane e beni di prima necessitá su tavolinetti arrangiati ai margini delle
strade. La nuova frutta: la succulenta papaya, il melone africano, che a volte
era arancione, a volte rossa con semi a pallini neri; il mango che non riuscivo
a descrivere; gli ananas dolci giganti e gustosi sempre a portata di mano; le
banane piccole e gialle, le banane rosa
e cremose. E poi c’erano i bananoni, i planten, le banane che si mangiavano
fritte o arrostite; le canne da zucchero tagliate come le patatine fritte che
si succhiavano come dei lecca lecca; lo yam, la grossissima patata che aveva un
gusto aromatico leggermente amaro con cui
Etienne faceva degli hamburger arrostiti o che friggeva come le
patatine… L’acqua non si poteva bere dal rubinetto, ma veniva bollita e
filtrata e poi imbottigliata, e noi la portavamo in giro nelle borracce.
C’erano i nigeriani, ma io ne
conoscevo solo uno, l’autista di mio padre.
Gli altri li incontravo quando
andavamo in giro a comprare la frutta , nei supermercati o al mare. Ma non
capivo nulla di quello che dicevano dunque le conversazioni avvenivano con i
sorrisi e gli occhi e le loro fragorose risate con i miei genitori.
C’erano anche degli animali, ma
non leoni ed elefanti, in mezzo al traffico a volte spuntavano delle mandrie di
mucche, che peró non erano come quelle siciliane; erano mucche abbastanza magre
e con delle corna lunghe lunghe, a punta come quelle delle capre, ma che si
ergevano ad arco concavo ai lati della testa.
C’erano tantissime zanzare e
c’era la malaria, non capivo cos’era ma c’era, e per questo prendavamo pillole
di chinino per alcune settimane prima e dopo l’arrivo.
Lagos avevo scoperto era una
laguna ed era disposta su piú isole noi
vivevamo a Victoria Island, e li c’era Bar Beach la spiaggia che si apriva
sull’oceano atlantico e che aveva delle onde giganti in cui peró c’era vietato
nuotare.
Accanto ad ogni edificio e lungo
ogni strada c’erano le fogne, ed erano candidamente aperte. Bisognava fare attenzione
a dove mettere i piedi.
C’era il pulmino che ci veniva a
prendere alle 6.20 del mattino in cui c’erano altri bambini Italiani con cui
andavamo a scuola. Ci volevano 30 minuti per arrivare a scuola in pulmino e
bisognava partire presto perché altrimenti si formavano grandi file di
macchine.
Nel tragitto da casa a scuola passavamo ogni giorno attraverso i
grandi ponti che collegavano le isole di Lagos e che erano tangenti alla City.
I ponti erano
molto alti, ma non alti come i grattacieli, e poco prima e poco dopo i ponti
c’erano tante baracche, ma c’erano anche grandi pozzanghere come dei laghetti
in cui i bambini nigeriani giocavano. E
poi c’era la scuola.
La scuola era situata ad Ebute
Metta un quartiere antico di Lagos dove c’erano mercati e casette, ma che era
completamente diverso da Victoria Island.
Ci viveva qualche espatriato, ma non
molti, forse 1 o 2. Anche noi ci abitammo qualche anno piú avanti.
Quando scendevamo dal ponte per
entrare ad Ebutte Metta il traffico rallentava e cosí avevamo le immagini della vita mattutina dei
nigeriani che iniziavano la giornata. C’erano uomini con un pareo avvolto al
ventre una mano piegata in vita e l’altra impegnata a lavarsi i denti con il
bastoncino di legno che poi sputacchiavano.
C’erano persone a piedi, in
bicicletta, in macchina, in taxi che erano gialli con strisce verdi o nere.
C’erano autobus che avevano lo stesso colore ma avevano dimensioni e stili
variabili, con gli ultimi passeggeri che salivano al volo e si attaccavano come
meglio potevano. C’erano giovani studenti che portavano la cartella a tracolla
sulla testa.
C’erano mami colorate con capelli intrecciati o con grossi
turbanti “alla nigeriana” che avevano un baracchino di leccornie di pane,
biscotti e latte condensato ed altre che friggevano banane e cucinavano stufati
di pepper soup e riso bollito circondate da odori, scodelle, fumo e qualche
sgabello arrangiato, spesso bidoni capovolti.
Le mami a Ebutte Metta erano
distribuite numerose come i bar di un corso di una cittá italiana, e ce n’era una sulla destra prima di
arrivare a scuola che segnava la fine del viaggio e l’arrivo a destinazione.
La scuola Italiana Internazionale
si chiamava Fabio Zuccarello, in memoria di un giovane ragazzo italiano che era
morto giovanissimo in un incidente stradale. Questo particolare mi colpí molto: perché essendo cosí giovane non avevo sentito ancora della morte
di un ragazzo, ma anche perché il nome della scuola era stampato in blu sulle
magliette bianche che assieme ad una gonna blu diventava l’ uniforme della
scuola, non era obbligatoria ma era, diciamo, vivamente apprezzata. Io non ero
abituata alle uniformi e andare in giro con il nome di un ragazzo morto
stampato sul petto mi sembrava alquanto macabro.
Me la misi circa 10 volte e
poi optai per le camicette a fiori che aveva cucito la nonna sui jeans. Questa
scelta mi fece etichettare come la
figlia dei fiori, un nomignolo di cui ignoravo il significato e quindi mi sentivo felicemente una bambina fiorita.
La scuola era arrangiata in 2
palazzi di circa 3 piani l’uno che comunicavano attraverso un cortile
abbastanza coperto, da una parte c’era l’edificio delle elementari, dall’altra
quello delle medie e superiori, in mezzo c’era una palestra, anche questa al
chiuso.
Quando tutti i bambini erano arrivati e i presenti contati i cancelli si chiudevano e
noi rimanevamo dentro.
Durante la ricreazione alcuni di noi cercavano di
corrompere i bidelli nigeriani della scuola per andare a comprare le gomme da
masticare.
Le gomme erano vendute individualmente: c’erano le dandy ,rosa dal
sapore fragola fruttato, piccole tavolette quadrate e avvolte come una
caramella di zucchero e c’erano le bazooka.
Le bazooka erano una tavoletta piú grande di circa 5 cm per 2.5 cm che facevano
esplodere lo zucchero in bocca come un vero bazooka, ci volevano circa 3 minuti
per assorbire tutto lo zucchero dopodiché diventavano dure e immasticabili.
Anche queste erano incartate e all’ interno della carta c’era un fumetto che
narrava le avventure di Bazooka Joe un bambino biondo con un cappello da
baseball e un occhio coperto da una benda pirata. Ci sono 2 bidelli che mi ricordo:
Robert il bidello capo che era piú difficile da mandare in missione, e Thomas che
il piú delle volte ci accontentava. Era
vietato uscire ma era anche vietato mandare i bidelli in missione… o cosí ci dicevano loro. Tuttavia, infine i bidelli uscivano
e andavano dalla mami all’angolo e di
certo non erano invisibili, ma questo rimarrá sempre un mistero.
Il mio primo impatto con la
scuola italiana a Ebutte Metta fu un po’ catastrofico. Fino a quel momento mi
era sempre piaciuto andare a scuola, mi piaceva imparare e me la cavavo
abbastanza bene. Ero all’ inizio della 5° elementare e il mio primo giorno
capitai nel bel mezzo della lezione di inglese. Provenivo da una scuola
semiprivata dove avevo avuto qualche incontro sporadico con Peggy, una
madrelingua inglese, ma nella nuova scuola la seconda lingua veniva insegnata sin
dall’asilo ed era inclusa nell’ orario scolastico circa 3 volte a settimana.
Non fui fortunata quel giorno poiché capitai con una maestra non degna di
questo nome che mi invitó a leggere ad alta voce il testo che mi aprí davanti, porgendomi severa un libro sul banco.
E io lessi tuttavia per farlo utilizzai la fonetica italiana. Lei mi ascoltó per
qualche frase e poi mi sgridó stizzita e mi disse di leggere bene. Non sapevo
che fare, non avevo idea di cosa volesse e mi sentivo terrorizzata. In mio
aiuto arrivó la mia compagna di banco Susy. Sottovoce mi suggerí come dovevo leggere e io finsi di leggere
ripetendo ció che riuscivo a sentire dalla vocina di Susy. Vorrei riincontrare
questa maestra, se fosse ancora viva, e dirle che avrebbe fatto meglio a fare
un altro mestiere e dirle che certo non grazie a lei ho imparato tanto bene l’
inglese da potere studiare e insegnare in Irlanda. Da quel momento odiai
profondamente l’ inglese per i successivi 5 anni, persi la voce sicura che avevo guadagnato nei precedenti quattro
anni di scuola ma diventai molto amica di Susy.
Susy era dell’ Emilia Romagna mi
invitó a casa sua e mi portó all’Apapa Club dove andammo in piscina assieme.
Gli
espatriati andavano nei Club. Per me Club era ancora un suono, come tante
parole inglesi che iniziavo ad ascoltare, non ne comprendevo appieno il
significato. L’avevo associato alla piscina dunque per me era la piscina. I clubs
di Lagos, scoprii piú tardi, erano dei
centri di svago dove si potevano praticare tennis, squash e altri sport e
andare in piscina, ma si poteva anche andare al bar o al ristorante.
L’ Ikoy
Club era famoso per i suoi Chapman e i club sandwich al pollo e cipolle ma
anche per il delizioso chicken curry & rise. Per entrare ai club bisognava
avere la tessera e per avere la tessera bisognava essere introdotti da un altro
socio e fondamentalmente bisognava pagare. Quasi tutti gli espatriati avevano
un tessera per i clubs, di solito per quello piú vicino alla propria casa. Il piú vicino a casa nostra era l’ Ikoy club. I clubs
erano spesso i luoghi di ritrovo dei giovani e non giovani espatriati. In
qualche modo sostituivano quello che in Italia in generale e in Sicilia in
particolare sono le piazze. Spesso era lì che si andava il venerdí pomeriggio o durante il week end. Non c’erano
solo bianchi, c’erano persone di tutte le nazionalitá inclusi i nigeriani ricchi. Susy era giá li da alcuni anni. Ci frequentammo in quel
periodo. Rimase per un altro anno e poi andó in un altro paese.
Capita spesso di salutare gli
amici e andare via solo che mi resi presto conto che da “espatriato” questo
capitava piú spesso e capitava al di
fuori della nostra volontá.
Cosí come
avevo lasciato gli amici di Catania mi abituavo a salutare, in alcuni casi per
sempre, gli amici che partivano con le loro famiglie. Ed iniziavo anche ad
abituarmi a non attaccarmi troppo né alle persone né ai luoghi.
Venivo da una cittá di 300.000 persone dove vivevo in un quartiere
di un paese del quale conoscevo la lingua, le vie, negozi e le persone che le
abitavano e ero stata catapultata in una cittá di allora 4 milioni di persone, la maggior parte
neri ma con cui avevo pochi contatti e di cui non conoscevo nulla, in un mondo
dove dovevo necessariamente mettermi a confronto con il diverso: gli odori, i
sapori, la lingua, le strade, le persone il modo di vivere. Tutto era diverso e
infine mi resi conto che anche io ero
diversa. In Nigeria ero bianca espatriata e siciliana, in Sicilia ero strana
senza accento ed etichettata come africana.
Quando il significato di
appartenenza scivola al di fuori del territoriale allora é il momento di
ricercarlo altrove, e credo proprio che questi anni abbiano marcato l’ inizio
della mia ricerca sul concetto di appartenenza. Succede a tutti durante l’adolescenza
di porsi delle domande esistenziali ma sicuramente l’esperienza di cambiare
paese durante l’ infanzia ne accellera il processo.
Mi resi presto conto che noi
espatriati vivevamo in quella che con l’amica Simona abbiamo definito in
seguito la gabbia d’ oro.
Apparentemente non ci mancava nulla. Avevamo una vita
agiata e benestante ma percepivamo a frammenti i paradossi dell’ambiente in cui
eravamo immersi. Non c’era l’appartheid in Nigeria tuttavia era evidente che ci
fosse un “bel casino”.
Nell’83 ci fu un
colpo di stato, i militari presero di forza il governo da poco messo in piedi.
La tv e la radio mandavano in onda solo musica classica, i telefoni non
funzionavano, c’era il coprifuoco al calare del sole e c’era uno stato generale
di all’erta. Si comunicava a passaparola con i vicini e attraverso walky talky
con i piú lontani. Dopo il colpo di
stato furono instaurati i check point
specialmente all’ uscita ed entrata degli isolotti sopra o sotto i ponti e a
volte passare i check point richiedeva un pedaggio. Io bambina, presto
addolescente, mi sentivo vivere in un limbo in cui a volte capivo e molto piú spesso non capivo.
A me non era capitato nulla
e nemmeno ai miei amici espatriati. Piú o meno continuavamo a vivere come sempre con
qualche accortezza in piú, ma sapevo che
a pochi chilometri di distanza interi quartieri erano stati spazzati via dai militari.
Il coprifuoco non duró molto, i check point rimasero. Era per me evidente che
c’erano cose che non quadravano.
Mi sentivo davvero impotente e in una
situazione assolutamente paradossale. Ma capivo che ero piccola e che ero
bianca e che non era il mio paese e che le multinazionali erano parte in causa
e se mai avessi detto qualcosa sarei stata la prima a dovere lasciare il paese.
Solo in seguito scoprii che contemporaneamente a questi accaduti anche la
maggior parte degli scrittori e degli artisti Nigeriani oltre a tanti altri nella mischia
erano stati perseguitati e uccisi dal
regime militare.
Non sapró mai se fu l’ inizio
della consapevolezza della situazione in cui vivevamo o l’inizio della mia adolescenza
o le vicissitudini familiari problematiche che accompagnarono quegli anni o
tutt’e tre.
Ma se penso alla Nigeria che ho abitato in quegli anni, ho spesso
tristezza per il periodo segnato da cosí grandi e non sempre piacevoli trasformazioni e
dal senso di impotenza che le accompagnava.
Allo stesso tempo se escludo la
pazzia degli uomini folli e abbraccio la terra degli antenati Igbo e Yoruba entrambi,
penso alla Nigeria come al paese caratterizzato dall’elemento del fuoco.
Ogni
cosa era vivida e spettacolare in Nigeria, gli odori erano fortissimi, acri di
maturazione satura. Anche i colori erano vividi, non solo quelli della luce del
sole, che spesso era un sole bianco appannato dall’ umiditá ma i colori della terra rossa, dei fiori
sgargianti e copiosi, della frutta abbondante, dei tessuti vivaci e colorati,
delle creazioni degli artisti Nigeriani.
Gli alberi, i fiori e i frutti crescevano
rigogliosi; un albero non si poteva quasi mai definire un alberello, era sempre
maestoso. Cosí come le onde dell’ oceano che si infrangevano sulle spiagge, erano immense, enormi come gli antichi altopiani del nord. Nel
bene e nel male la vita all’equatore sembrava esplosiva, dandomi la sensazione
che eruttasse da ogni particella della natura. Anche i suoni contribuivano ad
accompagnare il ritmo delle giornate.
Vicino alle abitazioni degli espatriati,
nello stesso “compound”, si trovavano le piú modeste abitazioni degli stewarts. Spesso 1 o
2 stanze per stewart, con un bagno in comune con gli altri e spesso anche
alloggio per parte delle loro famiglie. Era in particolare dai “boys’
quarters”, cosí si chiamavano le loro
case, che provenivano echi di
percussioni di musica africana dalle radio e qualche volta dal vivo. Mi ricordo
che li udivo specialmente mentre mi addormentavo, mi davano un senso di
tranquillitá e sicurezza che si
accordava al ritmo del cuore e mi faceva sentire viva e paradossalmente
protetta. Tutti i sensi nessuno escluso venivano invitati a danzare come se si
danzasse con il fuoco.
E al ritmo di quel fuoco noi
giovani adolescenti ballavamo. Non avevamo motorini come i nostri coetanei in
Italia ma riuscivamo a metterci d’accordo per farci accompagnare da uno o
l’altro autista o qualche mamma volontaria per andare a casa dell’ uno o dell’altro
e passare i pomeriggi assieme. Spesso ci ritrovavamo a casa di Paolo Z. che
aveva la casa libera = senza la presenza di alcun genitore. Paolo Z. era un
oste formidabile a volte ci invitava e altre ci consentiva di autoinvitarci e quando non era intento a
riparare radio o altri oggetti elettronici preparava vassoi colmi di bigné,
torte al cioccolato e fresche vaschette di gelato.
Non eravamo mai meno di 5 e
in media ci incontravamo in 8 a casa sua, dove c’era una piscina e dove
organizzavamo tossiche battaglie con la schiuma pulisci-moquette, un gioco assolutamente
senza senso ma che ci faceva ridere a crepapelle. Durante questi pomeriggi ci
scambiavamo osservazioni sulle relazioni, sulla vita e sul sesso. Renzo Z.
aveva attrezzato una saletta per la musica
con tanto di mixer e amplificatore e assieme a Stefano R. e Paolo G.
avevano creato i Kobos (un gruppo musicale con lo stesso nome delle monetine nigeriane).
Renzo alla tastiera, Paolo alla chitarra Stefano alle percussioni e voce, ci
deliziavano con le loro creazioni se non dal vivo per via telefonica ci davano
un anteprima dei loro pezzi originali.
E sempre durante i pomeriggi
organizzavamo i mitici parties. Che diventavano anche occasioni di inclusione
dei coetanei di altre nazionalitá .
Il salotto dell’oste si trasformava in una
discoteca improvvisata. In mezz’ ora riuscivano a coprire le finestre con delle
coperte oscuranti, ad allestire un banchetto di bibite e cibo, a montare luci,
stereo e casse, a trovare tra di noi il
DJ di turno, e finalmente si dimenticava tutto e si ballava.
Questi rituali si
ripetevano a scadenze piú o meno regolarei
e man mano che crescevamo, nonostante gli arrivi e le partenze di molti di noi,
i parties si organizzavano sempre piú tardi nella serata fino a quando non fu piú necessario oscurare le finestre, e le bibite
dei banchetti si arricchirono di bevande
alcoliche. Quelli che ricordo con piú gioia tuttavia rimarranno sempre i parties
pomeridiani, che avevano un maggiore gusto di
scoperta di autenticitá , e in
cui erano presenti gli amici cari che andarono via assieme alle coperte dalle
finestre.
Un altro dei riti era quello di
andare al mare la domenica.
Trovandosi direttamente vicino all’ oceano Lagos
offriva diverse possibilitá .
In particolare due sono le spiagge che sono
state mie regolari mete.
Raggiungibile a pochi minuti di macchina a Victoria
Island c’era Bar-beach. Una spiaggia
aperta dove le onde oceaniche arrivavano
non interrotte da alcuna barriera direttamente a riva e dove era abbastanza
pericoloso nuotare per via delle onde e delle forti correnti. La sabbia era
“spessa”, guardandola attentamente si intravedevano frammenti di conchiglie
frantumate che a volte si trovavano
intere in tutto il loro splendore. Bar beach me la ricordo famosa per 2
cose assolutamente e spaventosamente scollegate . Era la spiaggia dove venivano
impiccati o uccisi in altro modo atroce gli uomini condannati alla pena di
morte ed era la spiaggia dove venditori ambulanti servivano la suya.
Fortunatamente non ho mai assistito ad alcuna esecuzione , il senso di sgomento che derivava da tale
informazione veniva in qualche modo esorcizzato dal fumo della brace e dal
gusto degli spiedini piccanti della suya. Ma l’amaro gusto dell’assurditá rimaneva e rimante latente.
Raggiugibile da Victoria Island
attraversandola laguna in formidabili e precarissime imbarcazioni, chiamate
banana boats, c’era Tarkwa Bay. Il percorso nelle lunghe e nere barche di legno
durava circa 20 minuti ed era parte della rischiosa avventura.Durante il
tragitto si passava vicino all’entrata del porto e si intravedevano i
grattacieli della City Island. Tarkwa Bay aveva 2 accessi al mare, uno piú riparato scavato dalla spiaggia in mezzo alla
laguna e l’altro che si raggiungeva camminando su delle vecchie rotaie
abbandonate per circa altri 20 minuti. Lì la sabbia era finissima e la scarpata
continentale si estendeva per quasi un kilometro risultando in una passeggiata
di onde fragorose in cui peró era possibile camminare,nuoticchiare e fare un
tipo particolare di surf. Distesi di pancia sulle tavolette di legno, che si
affittavano dai nigeriani di Tarkwa Bay, aspettavamo le onde per planare per
una cinquantina di metri per poi
ricominciare. Le abili mami nigeriane trasportavano vassoi colmi di frutta,
olio di cocco, noccioline, bibite e di tutto un po’ sulla loro testa e
passavano a venderla sotto i capannini costruiti con assi di legno e rami di
palme sotto cui eravamo accampati. Cosí unti di olio di cocco, ci nutrivamo di ananas,
mango, banane e papaia e bevevamo fresco latte di cocco dalle noci ancora verdi
aperte a borraccia dai macete delle mami. Mangiavamo, bevevamo, giocavamo e
guardavamo da lontano con un senso di ansia, presto cacciato via dalle onde del
mare, i nostri zaini. Dentro lo zaino erano stati messi con cura e tanta buona
intenzione il libro o i libri con gli ultimi compiti da terminare prima del
lunedí . Inutile dire che i libri non furono mai aperti in spiaggia ma ció nonostante
facevano sempre parte del fagotto. Immancabilmente tornavano caldi e brucianti
di senso di colpa a colorare il dopo cena di domenica fino a tarda notte.
Quando si viaggia molto i pivot
della vita sembrano scandire le svolte in modo esemplare, quasi come se ci
fossero delle lancette di un orologio invisibile ad indicare i tempi e gli
avvenimenti. Era settembre del 1985, avevo appuntamento con gli esami di
riparazione del secondo anno del liceo scientifico di Lagos.
Ero stata
rimandata in 3 materie, Filosofia, Fisica e l’ immancabile Latino.
Fu cosí che incontrai Paolo Giunta La Spada, il nuovo
Prof. di storia e filosofia e anche
colui che avrebbe deciso in parte le mie sorti.
Mi trovai di fronte ad un uomo
con i riccioli neri e gli occhi azzurro-blu incorniciati dagli occhiali che
sembravano giá parlare del suo interesse
nei confronti del mondo.
Avevo studiato, ma avevo comunque paura.
Mi resi conto
che mi trovavo di fronte ad una persona che andava oltre le apparenze. Mi era
istintivamente simpatico e intesi che
doveva pormi delle domande sul programma svolto e notai subito la noia di doverne
ascoltare le risposte.
Quello che io lessi nella sua espressione era un misto
di divertimento e al contempo rassegnazione di dovere svolgere questo ingrato
compito.
Credo che ció che risposi lo rassicuró piú sul fatto che io avessi studiato ma non che
veramente ci capissi alcunchédi filosofia.
In qualche modo superai gli esami,
fui ammessa al terzo anno e Paolo G.L.S. diventó il mio professore di storia e
filosofia per i successivi 2 anni.
Quando penso a Paolo Giunta La Spada penso al’ introduzione eroica del nome che porta e le prime parole che mi
vengono in mente sono prospettive ed
orizzonti.
Ma quando penso a lui non posso fare a meno di pensare ed associarlo
ad altri due insegnanti Sabrina Ghio e Francesco Mele che sento di dovere
menzionare.
Questi tre meravigliosi individui sono gli insegnanti che hanno
contribuito maggiormente a ridefinire il ruolo e l’ idea di “insegnante” e
rimangono nel mio essere indimenticabili pietre miliari.
La mia percezione della scuola
italiana a Lagos aveva assunto tonalitá color grigio spento.
Le giornate si susseguivano
con una ripetizione narcotica e abbastanza dissociate dalla realtá in cui eravamo immersi.
Fuori c’era la Nigeria,
dentro ma lontana c’era l’ Italia e la scuola Italiana “espatriata” e in mezzo
c’era tanta formalitá di programmi
ministeriali da seguire in modo approssimato.
L’arrivo di Paolo G.L.S., Sabrina
Ghio e Francesco Mele fu per me un regalo tanto inaspettato quanto gradito.
Finalmente mi trovavo di fronte a 3 individui che insegnavano discipline diverse
in modo diverso, ma erano armati tutti dello stesso spirito.
Non ti chiedevano
di rigurgitare informazioni ma ti invitavano a riflettere e a pensare
autonomamente.
Fu cosí che la mia
tavolozza ebbe modo di essere spolverata ed io ripresi in mano tutti i colori
che avevo tenuto sotterrati.
Grazie alla loro presenza gli
ultimi anni del liceo furono per me un vero elisir sia per la mente che per la
mia anima.
Il mio spirito creativo in germe era assetato di ascoltare voci
nuove e di conoscere altre realtá .
Paolo, Sabrina e Francesco mi diedero acceso alla caravella delle meraviglie.
Le
loro lezioni mi ispiravano e mi incoraggiarono a ricercare nuove prospettive e
a riflettere su elementi che fino ad allora erano rimasti latenti percezioni.
Cosí
indipendentemente dalle nozioni che
appresi sento che grazie a questo multiplo incontro fui iniziata alla gioia
dell’ investigazione sulla preziositá dei temi della vita.
Paolo attraverso la storia e la filosofia , Sabrina attraverso
la letteratura italiana e latina lasciavano che la mia mente viaggiasse nel
tempo e nello spazio per entrare nel flusso del cosmo, Francesco attraverso la
geografia astronomica lo concretizzava.
Attraverso le lezioni di Paolo e
Sabrina percepivo le ali dell’essere umano e attraverso le lezioni di Francesco
percepivo l’effetto potente della forza di gravitá .
Furono loro che piantarono i semi
nel terreno fertile che li attendeva e fu attraverso il loro insegnamenti che
iniziarono a crescere germogli di consapevolezza e di voglia di approfondirla. Entrare
in contatto con i pensatori e gli scrittori del passato vicino e lontano,
contribuiva in qualche modo al mio senso di appartenenza al genere umano.
Mi
faceva entrare in quel tempo non impregnato dalla cronologia, il tempo che i
greci definivano Kairos.
Nella mia visione c’erano 2 realtá, quella delle cose pratiche e quella dello
spazio tempo che iniziai a chiamare la seconda realtá . Il mio senso di
appartenenza era molto confuso ma avevo la percezione che in qualche modo stavo
iniziando a prendere uno schieramento e che questo avesse a che fare sull’
investigazione di questa seconda realtá .
Ci sono due ricordi che associo a
Paolo che si sono cristallizzati nella
mia memoria. Il primo riguarda la prima lezione di filosofia in 3° liceo. Paolo
chiuse la porta, si sedette alla cattedra e si presentó. In puro accento romano disse il
suo nome e da dove veniva e noi sorridemmo. Ci disse che sarebbe stato il
nostro insegnante di storia e filosofia e poi ci invitó a presentarci e a turno
ci chiese di rispondere alla domanda: “cosa é secondo te la filosofia?”.
Ascoltó tranquillo ognuna delle nostre risposte validandone
l’ importanza e poi ci disse che per
rispondere a questa domanda ci avrebbe raccontato ció che diceva al suo giovane
nipote di 6 anni quando gli poneva lo stesso questito.
- cosa fai quando ti svegli la
mattina?
- mi alzo, mi infilo le
pantofole, mi lavo, mi vesto…
- perfetto, ecco la filosofia é
alzarsi, infilarsi le pantofole e vestirsi,
e nel frattempo domandarsi perché si fanno tutte queste cose…
Per me fu un vero colpo di
fulmine, segnó l’ inizio di un dialogo tra insegnante e studenti e creó
l’atmosfera di interesse indispensabile per approfondire gli argomenti trattati ad ascoltare le reciproche opinioni cosí come a creare spazio nelle nostre menti.
L’altro ricordo riguarda una
conversazione che avvenne fuori dalla scuola.
In quel periodo a scuola c’erano credo circa 600 studenti tra
elementari, medie, liceo scientifico e liceo linguistico. Iniziai il liceo con altri 11 studenti,
eravamo 10 al secondo anno, 7 al terzo e ci ritrovammo in 6 al quarto ed ultimo
anno. Non erano stati tutti bocciati, la maggior parte era andata via a causa
del trasferimento lavorativo dei genitori.
Se era normale frequentare i propri compagni di scuola, nel tempo libero
diventó altrettanto normale incontrare anche alcuni professori in diverse
occasioni sociali. Magari invitati a cena da amici comuni o a volte invitandoli
anche a casa propria. Credo che ci trovassimo a casa dei miei e si discuteva
sul tema dell’ amore. Io provengo da una famiglia non proprio tradizionale ma
pur sempre siciliana.
Avevo 17 anni e raccontavo che tra i miei sogni c’era
quello di incontrare la mia anima gemella.
Fu cosí che Paolo mi enunció la
sua teoria sull’anima gemella. Mi disse di pensare al numero di persone sulla
terra che ammontava a circa cinque miliardi e mezzo e al fatto che se eravamo
destinati ad incontrare solo un’anima gemella le probabilitá erano davvero molto scarse, quasi nulle. Mi
disse che secondo lui esistevano molte anime gemelle forse anche qualche
migliaio e che nella vita se ne possono incontrare alcune.
Ascoltando Paolo,
presi immediatamente coscienza delle mie origini culturali, e di tutto quello
che mi era stato tramandato senza parole dalla mamma, nonna bisnonna e il
cerchio allargato delle zie e cugine.
Non ero pronta ad abbandonare la mia
visione romantica ma ero comunque intrigata e disposta a prendere in
considerazione la sua teoria, l’alternativa era spaventosa.
In un senso avere avuto questa
conversazione mi ha salvato la vita. Ho sempre avuto un grande spirito materno,
una qualitá che non mi piaceva
possedere. Ascoltavo le persone parlare di me e sentivo che le aspettative
circa il mio futuro erano associate a
questa qualitá e in linea diretta al fatto che il successo
della mia vita sarebbe stata legata al matrimonio e alla procreazione.
Dunque
da qualche parte almeno in superficie ero protesa alla ricerca di questa anima
gemella. Non mi sentivo sicura di nulla al mondo, l’ unica cosa di cui ero
certa é che mi piaceva studiare e disegnare e amavo l’arte in tutte le sue
manifestazioni .
Cosí in cerca della mia anima
gemella é iniziato lo slalom del mio essere un eterno studente.
Dopo avere studiato
disegno e tessuto a Firenze lavorai un
anno tra Francia, Germania e Olanda. Poi approdai in Irlanda inizialmente per studiare
artigianato, lì mi sentivo a casa e
quindi ci rimasi per i successivi 10 anni.
Ho incontrato alcune anime gemelle
ma non mi sono sposata, ho fatto pace con il mio istinto materno e dopo avere
lavorato nel settore educativo fuori dalle scuole sono tornata a studiare.
Scelsi le discipline artistiche perché erano
quelle che meglio mi permettevano di entrare in contatto con lo” spazio- tempo “
ma anche a contatto con le persone con cui lavoravo. Sono diventata insegnante
di arte e design e ho lavorato al National College di Art & Design di
Dublino fino al ’99 . Poi incontrai un ‘ altra anima gemella.
Lasciai tutto e
mi trasferii in Islanda. La nostra storia finí , ma io rimasi a lavorare all’accademia d’ arte di Reykjavik e
rispresi a studiare e a ricercare sulle possibili applicazioni dei linguaggi
visivi nell’educazione infantile. Un giro di bussola che mi portó incredula
dall’ Islanda a fare un tirocinio presso le scuole d’ infanzia di Reggio
Emilia. Continuai a lavorare presso
l’accademia di Reykjavik fino a che non sentii un grande bisogno e una grande
voglia di conoscere il mio paese e di riscoprire la mia lingua madre. Cosí guidata da tanta nostalgia e armata di un po’
di senso dell’avventura sono tornata a vivere in Italia nel 2007.
Ritornare in Italia e riambientarmi
non é stato facile come dicono a Roma “manco pé niente”. Cercavo lavoro a Catania sui passi del tango
argentino, e un pivot mi portó a studiare Illustrazione in Cornovaglia.
Milano arriva apparentemente per
caso nel 2009, come una scelta presa per esclusione di altre . Dopo un treno in
corsa di lascia e prendi di cittá , case , impieghi, e incontri di anime gemelle mi rendo conto
che raggiungo oggi il mio record residenza piú lungo: ben 8 anni in nella stessa cittá nella stessa casa e facendo lo stesso lavoro.
Nel mio tempo libero disegno, ballo, studio Arteterapia e Yoga.
Il treno oggi è fermo nella
Stazione di Milano, ma forse domani riparte, chi puó dirlo. E l’ anime gemella?
Forse l’ho incontrata o forse no.
Ma nel grande cerchio della vita
sento che ho incontrato la mia di anima e forse é il primo passo verso la
connessione con tutte le altre. Lavoro in una scuola internazionale abitata da
studenti che arrivano da ogni parte del mondo e che ripartono per ogni altra.
Sono tornata ad abitare un ambiente lavorativo colmo di espatriati. Ancora una volta torno a riflettere sul
concetto di appartenenza culturale.
Ci sono abissi economici che mi separano
dai miei studenti, ma la barriera é solo la forma. Mi appare sempre piú chiaro che il mio villaggio non ha confini
territoritoriali ma é delimitato dall’
esperienza che ci accomuna: il viaggio, anche la vita é un viaggio, si sa
quando si é partiti ma non si sa quando si arriva. Ed é sulla scia di questa
consapevolezza che ho trovato il sentiero su cui camminare.
Passo dopo passo
l’identitá si trasforma.
Continuo ad
immergermi nella seconda realtá ed é con
questo spirito che accolgo i miei studenti. Sicuramente sono esenti dai
problemi legati alla sopravvivenza economica, ma hanno comunque bisogno di ascolto di
attenzione e di tanto dialogo.
Insegno arte e yoga al pomeriggio e di mattina
faccio la segretaria- mamma- tutto fare. Ho una grossa palla di Pilates in
ufficio, la uso per sgranchirmi la schiena dopo avere lavorato al computer. Gli
studenti l’hanno scambiata per il loro sgabello
e spesso ci si siedono e, mentre ci rimbalzano sopra, mi raccontano le
loro storie e i loro pensieri e io cerco di ascoltarli senza censure e senza
troppi interventi.
Mi domando, come ogni
insegnante credo, cosa veramente tento di trasmettere? Si dice che si insegna
meglio ció che abbiamo piú bisogno di
apprendere e allora mi viene da dire che se durante il tempo che trascorriamo
assieme riuscissi a trasmettergli un momento di connessione allora é questa la chiave che cerco di
donargli.
Non capita a tutti gli insegnanti
di vedere i germogli dei semi piantati per questo sono sono felice che tu abbia
lanciato questa proposta.
É diventata un’ occasione di rivisitare un posto, Lagos
dove non tornavo da molto, molto tempo e mi ha offerto l’ opportunita di dirti:
grazie Paolo!