16 luglio 2020

Lagos, Nigeria, di Maria Teresa Falabella

Quello che segue è il bellissimo racconto di Maria Teresa Falabella, tanti ricordi straordinari: l'incontro con me, giovane docente di Storia e Filosofia, ma soprattutto la sua vita nella scuola di Lagos, Nigeria, negli anni Ottanta. 
Grazie infinite, Titti, complimenti!



La mia famiglia ed io ci trasferimmo in Nigeria alla fine di Luglio 1979.
Dopo una propaganda di favole sull’Africa fu indetta una votazione familiare (2 adulti e 3 bambine): i primi quattro risultarono favorevoli, l’ultima contraria.

Fu cosí  che partimmo da Catania il giorno dopo il mio nono compleanno verso questo misterioso continente. Arrivammo a Lagos verso mezzanotte e ci vollero altre 2 ore per passare le file dei documenti che sembravano essere barriere insormontabili. Era venuto a prenderci un nigeriano mandato dalla compagnia petrolifera per cui lavorava mio padre per aiutare a gestire le varie pratiche: le nostre e quelle di una famiglia che avevamo incontrato a Roma e che affrontava lo stesso viaggio. Questa, che pensavo fosse l’accoglienza della prima volta, scoprii in seguito, era la prassi per ogni arrivo ed ogni partenza. Ricordo ancora vivido quel primo viaggio ed il tragitto in macchina dall’aeroporto verso la nuova incognita dimora.

Era stata un’ estate impegnata da trasloco, impacchettamenti, giochi allegri, paura, eccitazione e campeggio a casa dei nonni. Ad ufficializzare l’ imminente cambiamento c’erano stati, oltre al passaporto, una serie di interminabili visite mediche e vaccini. La cosa piú  dolorosa fu lasciare i nostri 3 cani e i nonni materni, in quest’ ordine perché i cani avevano nuovi padroni e sapevamo che con buone probabilitá  non li avremmo rivisti piú .

Le fiabe avevano colorito il nostro immaginario di piccoli villaggi e grandi foreste in cui vivevano elefanti, scimmie, leoni , antilopi e giraffe: il libro della giungla con le pagine aperte nel continente africano. Quindi la nostra sorpresa fu grande quando con gli occhi sgranati davanti ai finestrini vedemmo tutt’altro che giungla mentre sentimmo tutto il caldo umido dell’Africa. Nei circa 30 kilometri che separano l’aeroporto di Ikeja da Victoria Island, l’ isolotto dove avremmo abitato, attraversammo un bel pezzo di cittá  passando per i megaponti della City dove si ergevano illuminati dei maestosi grattacieli. Era notte e le baracche, in quel tempo accampate vicino ai grattacieli e nelle prossimitá  dei ponti, erano nascoste dal buio della notte, non si vedevano villaggi e di animali neanche l’ombra. Decisamente il mio primo impatto con lo shock culturale.

Arrivammo a casa durante la notte e ad accoglierci a casa c’era un uomo del Benin. Etienne era un cuoco e un aiuto domestico. Scoprii che in ogni casa di espatriati c’era uno stewart, cosi si chiamavano gli aiuti domestici che di solito erano uomini,  a volte anche due. Etienne aveva preparato una deliziosa macedonia di agrumi con tutti gli spicchi separati e senza pellicina e ce la offrí  prima di congedarsi e sparire. 
Mangiammo la macedonia prima di andare a letto e ci svegliammo sotto una nuova luce.
Avevamo una grande camera da letto con 3 letti a castello e 3 scrivanie e il pavimento era ricoperto di una calda moquette marrone. 
In molte case di espatriati c’era la moquette e anche l’aria condizionata, un condizionatore per camera.
Osservavo ogni cosa e ogni persona ed erano, ad eccezione delle mie sorelle, tutte cose e persone nuove perché anche i miei genitori sembravano diversi.

Descrissi in lunghe lettere ai nonni la nuova vita cominciando dal cibo. 
Il pane bianco e dolciastro venduto nei tavolinetti agli angoli delle strade dalle mamy,  infatti erano spesso donne, le nigeriane che vendevano pane e beni di prima necessitá  su tavolinetti arrangiati ai margini delle strade. La nuova frutta: la succulenta papaya, il melone africano, che a volte era arancione, a volte rossa con semi a pallini neri; il mango che non riuscivo a descrivere; gli ananas dolci giganti e gustosi sempre a portata di mano; le banane piccole e gialle,  le banane rosa e cremose. E poi c’erano i bananoni, i planten, le banane che si mangiavano fritte o arrostite; le canne da zucchero tagliate come le patatine fritte che si succhiavano come dei lecca lecca; lo yam, la grossissima patata che aveva un gusto aromatico leggermente amaro con cui  Etienne faceva degli hamburger arrostiti o che friggeva come le patatine… L’acqua non si poteva bere dal rubinetto, ma veniva bollita e filtrata e poi imbottigliata, e noi la portavamo in giro nelle borracce.
C’erano i nigeriani, ma io ne conoscevo solo uno, l’autista di mio padre. 
Gli altri li incontravo quando andavamo in giro a comprare la frutta , nei supermercati o al mare. Ma non capivo nulla di quello che dicevano dunque le conversazioni avvenivano con i sorrisi e gli occhi e le loro fragorose risate con i miei genitori.
C’erano anche degli animali, ma non leoni ed elefanti, in mezzo al traffico a volte spuntavano delle mandrie di mucche, che peró non erano come quelle siciliane; erano mucche abbastanza magre e con delle corna lunghe lunghe, a punta come quelle delle capre, ma che si ergevano ad arco concavo ai lati della testa. 
C’erano tantissime zanzare e c’era la malaria, non capivo cos’era ma c’era, e per questo prendavamo pillole di chinino per alcune settimane prima e dopo l’arrivo.
Lagos avevo scoperto era una laguna ed era disposta su piú  isole noi vivevamo a Victoria Island, e li c’era Bar Beach la spiaggia che si apriva sull’oceano atlantico e che aveva delle onde giganti in cui peró c’era vietato nuotare.
Accanto ad ogni edificio e lungo ogni strada c’erano le fogne, ed erano candidamente aperte. Bisognava fare attenzione a dove mettere i piedi.

C’era il pulmino che ci veniva a prendere alle 6.20 del mattino in cui c’erano altri bambini Italiani con cui andavamo a scuola. Ci volevano 30 minuti per arrivare a scuola in pulmino e bisognava partire presto perché altrimenti si formavano grandi file di macchine. 
Nel tragitto da casa a scuola passavamo ogni giorno attraverso i grandi ponti che collegavano le isole di Lagos  e che erano tangenti alla City. 
I ponti erano molto alti, ma non alti come i grattacieli, e poco prima e poco dopo i ponti c’erano tante baracche, ma c’erano anche grandi pozzanghere come dei laghetti in cui i bambini nigeriani giocavano.  E poi c’era la scuola.

La scuola era situata ad Ebute Metta un quartiere antico di Lagos dove c’erano mercati e casette, ma che era completamente diverso da Victoria Island. 
Ci viveva qualche espatriato, ma non molti, forse 1 o 2. Anche noi ci abitammo qualche anno piú  avanti. 
Quando scendevamo dal ponte per entrare ad Ebutte Metta il traffico rallentava e cosí  avevamo le immagini della vita mattutina dei nigeriani che iniziavano la giornata. C’erano uomini con un pareo avvolto al ventre una mano piegata in vita e l’altra impegnata a lavarsi i denti con il bastoncino di legno che poi sputacchiavano. 
C’erano persone a piedi, in bicicletta, in macchina, in taxi che erano gialli con strisce verdi o nere. C’erano autobus che avevano lo stesso colore ma avevano dimensioni e stili variabili, con gli ultimi passeggeri che salivano al volo e si attaccavano come meglio potevano. C’erano giovani studenti che portavano la cartella a tracolla sulla testa. 
C’erano mami colorate con capelli intrecciati o con grossi turbanti “alla nigeriana” che avevano un baracchino di leccornie di pane, biscotti e latte condensato ed altre che friggevano banane e cucinavano stufati di pepper soup e riso bollito circondate da odori, scodelle, fumo e qualche sgabello arrangiato, spesso bidoni capovolti.
Le mami a Ebutte Metta erano distribuite numerose come i bar di un corso di una cittá  italiana, e ce n’era una sulla destra prima di arrivare a scuola che segnava la fine del viaggio e l’arrivo a destinazione.

La scuola Italiana Internazionale si chiamava Fabio Zuccarello, in memoria di un giovane ragazzo italiano che era morto giovanissimo in un incidente stradale. Questo particolare mi colpí  molto: perché essendo cosí  giovane non avevo sentito ancora della morte di un ragazzo, ma anche perché il nome della scuola era stampato in blu sulle magliette bianche che assieme ad una gonna blu diventava l’ uniforme della scuola, non era obbligatoria ma era, diciamo, vivamente apprezzata. Io non ero abituata alle uniformi e andare in giro con il nome di un ragazzo morto stampato sul petto mi sembrava alquanto macabro. 
Me la misi circa 10 volte e poi optai per le camicette a fiori che aveva cucito la nonna sui jeans. Questa scelta  mi fece etichettare come la figlia dei fiori, un nomignolo di cui ignoravo il significato  e quindi mi sentivo felicemente una bambina fiorita.
La scuola era arrangiata in 2 palazzi di circa 3 piani l’uno che comunicavano attraverso un cortile abbastanza coperto, da una parte c’era l’edificio delle elementari, dall’altra quello delle medie e superiori, in mezzo c’era una palestra, anche questa al chiuso. 
Quando tutti i bambini erano arrivati e  i presenti contati i cancelli si chiudevano e noi rimanevamo dentro. 
Durante la ricreazione alcuni di noi cercavano di corrompere i bidelli nigeriani della scuola per andare a comprare le gomme da masticare. 
Le gomme erano vendute individualmente: c’erano le dandy ,rosa dal sapore fragola fruttato, piccole tavolette quadrate e avvolte come una caramella di zucchero e c’erano le bazooka. 
Le bazooka erano una tavoletta piú  grande di circa 5 cm per 2.5 cm che facevano esplodere lo zucchero in bocca come un vero bazooka, ci volevano circa 3 minuti per assorbire tutto lo zucchero dopodiché diventavano dure e immasticabili. 
Anche queste erano incartate e all’ interno della carta c’era un fumetto che narrava le avventure di Bazooka Joe un bambino biondo con un cappello da baseball e un occhio coperto da una benda  pirata. Ci sono 2 bidelli che mi ricordo: Robert il bidello capo che era piú  difficile da mandare in missione, e Thomas che il piú  delle volte ci accontentava. Era vietato uscire ma era anche vietato mandare i bidelli in missione… o cosí  ci dicevano loro. Tuttavia, infine i bidelli uscivano e andavano dalla mami all’angolo  e di certo non erano invisibili, ma questo rimarrá  sempre un mistero.

Il mio primo impatto con la scuola italiana a Ebutte Metta fu un po’ catastrofico. Fino a quel momento mi era sempre piaciuto andare a scuola, mi piaceva imparare e me la cavavo abbastanza bene. Ero all’ inizio della 5° elementare e il mio primo giorno capitai nel bel mezzo della lezione di inglese. Provenivo da una scuola semiprivata dove avevo avuto qualche incontro sporadico con Peggy, una madrelingua inglese, ma nella nuova scuola la seconda lingua veniva insegnata sin dall’asilo ed era inclusa nell’ orario scolastico circa 3 volte a settimana. Non fui fortunata quel giorno poiché capitai con una maestra non degna di questo nome che mi invitó a leggere ad alta voce il testo che mi aprí  davanti, porgendomi severa un libro sul banco. E io lessi tuttavia per farlo utilizzai la fonetica italiana. Lei mi ascoltó per qualche frase e poi mi sgridó stizzita e mi disse di leggere bene. Non sapevo che fare, non avevo idea di cosa volesse e mi sentivo terrorizzata. In mio aiuto arrivó la mia compagna di banco Susy. Sottovoce mi suggerí  come dovevo leggere e io finsi di leggere ripetendo ció che riuscivo a sentire dalla vocina di Susy. Vorrei riincontrare questa maestra, se fosse ancora viva, e dirle che avrebbe fatto meglio a fare un altro mestiere e dirle che certo non grazie a lei ho imparato tanto bene l’ inglese da potere studiare e insegnare in Irlanda. Da quel momento odiai profondamente l’ inglese per i successivi 5 anni, persi la voce sicura  che avevo guadagnato nei precedenti quattro anni di scuola ma diventai molto amica di Susy.
Susy era dell’ Emilia Romagna mi invitó a casa sua e mi portó all’Apapa Club dove andammo in piscina assieme. 

Gli espatriati andavano nei Club. Per me Club era ancora un suono, come tante parole inglesi che iniziavo ad ascoltare, non ne comprendevo appieno il significato. L’avevo associato alla piscina dunque per me era la piscina. I clubs di Lagos, scoprii piú  tardi, erano dei centri di svago dove si potevano praticare tennis, squash e altri sport e andare in piscina, ma si poteva anche andare al bar o al ristorante. 
L’ Ikoy Club era famoso per i suoi Chapman e i club sandwich al pollo e cipolle ma anche per il delizioso chicken curry & rise. Per entrare ai club bisognava avere la tessera e per avere la tessera bisognava essere introdotti da un altro socio e fondamentalmente bisognava pagare. Quasi tutti gli espatriati avevano un tessera per i clubs, di solito per quello piú  vicino alla propria casa. Il piú  vicino a casa nostra era l’ Ikoy club. I clubs erano spesso i luoghi di ritrovo dei giovani e non giovani espatriati. In qualche modo sostituivano quello che in Italia in generale e in Sicilia in particolare sono le piazze. Spesso era lì che si andava il venerdí  pomeriggio o durante il week end. Non c’erano solo bianchi, c’erano persone di tutte le nazionalitá  inclusi i nigeriani ricchi.  Susy era giá  li da alcuni anni. Ci frequentammo in quel periodo. Rimase per un altro anno e poi andó in un altro paese.
Capita spesso di salutare gli amici e andare via solo che mi resi presto conto che da “espatriato” questo capitava  piú spesso e capitava al di fuori della nostra volontá. 
Cosí  come avevo lasciato gli amici di Catania mi abituavo a salutare, in alcuni casi per sempre, gli amici che partivano con le loro famiglie. Ed iniziavo anche ad abituarmi a non attaccarmi troppo né alle persone né ai luoghi.
Venivo da una cittá  di 300.000 persone dove vivevo in un quartiere di un paese del quale conoscevo la lingua, le vie, negozi e le persone che le abitavano e ero stata catapultata in una cittá  di  allora 4 milioni di persone, la maggior parte neri ma con cui avevo pochi contatti e di cui non conoscevo nulla, in un mondo dove dovevo necessariamente mettermi a confronto con il diverso: gli odori, i sapori, la lingua, le strade, le persone il modo di vivere. Tutto era diverso e infine  mi resi conto che anche io ero diversa. In Nigeria ero bianca espatriata e siciliana, in Sicilia ero strana senza accento ed etichettata come africana. 
Quando il significato di appartenenza scivola al di fuori del territoriale allora é il momento di ricercarlo altrove, e credo proprio che questi anni abbiano marcato l’ inizio della mia ricerca sul concetto di appartenenza. Succede a tutti durante l’adolescenza di porsi delle domande esistenziali ma sicuramente l’esperienza di cambiare paese durante l’ infanzia ne accellera il processo.
Mi resi presto conto che noi espatriati vivevamo in quella che con l’amica Simona abbiamo definito in seguito la gabbia d’ oro. 
Apparentemente non ci mancava nulla. Avevamo una vita agiata e benestante ma percepivamo a frammenti i paradossi dell’ambiente in cui eravamo immersi. Non c’era l’appartheid in Nigeria tuttavia era evidente che ci fosse un “bel casino”. 
Nell’83 ci fu  un colpo di stato, i militari presero di forza il governo da poco messo in piedi. La tv e la radio mandavano in onda solo musica classica, i telefoni non funzionavano, c’era il coprifuoco al calare del sole e c’era uno stato generale di all’erta. Si comunicava a passaparola con i vicini e attraverso walky talky con i piú  lontani. Dopo il colpo di stato  furono instaurati i check point specialmente all’ uscita ed entrata degli isolotti sopra o sotto i ponti e a volte passare i check point richiedeva un pedaggio. Io bambina, presto addolescente, mi sentivo vivere in un limbo in cui a volte capivo e molto piú  spesso non capivo. 
A me non era capitato nulla e nemmeno ai miei amici espatriati. Piú  o meno continuavamo a vivere come sempre con qualche accortezza in piú,  ma sapevo che a pochi chilometri di distanza interi quartieri erano stati spazzati via dai militari. 
Il coprifuoco non duró molto, i check point rimasero. Era per me evidente che c’erano cose che non quadravano. 
Mi sentivo davvero impotente e in una situazione assolutamente paradossale. Ma capivo che ero piccola e che ero bianca e che non era il mio paese e che le multinazionali erano parte in causa e se mai avessi detto qualcosa sarei stata la prima a dovere lasciare il paese. 
Solo in seguito scoprii che contemporaneamente a questi accaduti anche la maggior parte degli scrittori e degli artisti  Nigeriani oltre a tanti altri nella mischia erano stati perseguitati  e uccisi dal regime militare.
Non sapró mai se fu l’ inizio della consapevolezza della situazione in cui vivevamo o l’inizio della mia adolescenza o le vicissitudini familiari problematiche che accompagnarono quegli anni o tutt’e tre. 
Ma se penso alla Nigeria che ho abitato in quegli anni, ho spesso tristezza per il periodo segnato da cosí  grandi e non sempre piacevoli trasformazioni e dal senso di impotenza che le accompagnava.
Allo stesso tempo se escludo la pazzia degli uomini folli e abbraccio la terra degli antenati Igbo e Yoruba entrambi, penso alla Nigeria come al paese caratterizzato dall’elemento del fuoco. 
Ogni cosa era vivida e spettacolare in Nigeria, gli odori erano fortissimi, acri di maturazione satura. Anche i colori erano vividi, non solo quelli della luce del sole, che spesso era un sole bianco appannato dall’ umiditá  ma i colori della terra rossa, dei fiori sgargianti e copiosi, della frutta abbondante, dei tessuti vivaci e colorati, delle creazioni degli artisti Nigeriani. 
Gli alberi, i fiori e i frutti crescevano rigogliosi; un albero non si poteva quasi mai definire un alberello, era sempre maestoso. Cosí come le onde dell’ oceano che si infrangevano sulle spiagge,  erano immense,  enormi come gli antichi altopiani del nord. Nel bene e nel male la vita all’equatore sembrava esplosiva, dandomi la sensazione che eruttasse da ogni particella della natura. Anche i suoni contribuivano ad accompagnare il ritmo delle giornate. 
Vicino alle abitazioni degli espatriati, nello stesso “compound”, si trovavano le piú  modeste abitazioni degli stewarts. Spesso 1 o 2 stanze per stewart, con un bagno in comune con gli altri e spesso anche alloggio per parte delle loro famiglie. Era in particolare dai “boys’ quarters”, cosí  si chiamavano le loro case,  che provenivano echi di percussioni di musica africana dalle radio e qualche volta dal vivo. Mi ricordo che li udivo specialmente mentre mi addormentavo, mi davano un senso di tranquillitá  e sicurezza che si accordava al ritmo del cuore e mi faceva sentire viva e paradossalmente protetta. Tutti i sensi nessuno escluso venivano invitati a danzare come se si danzasse con il fuoco.
E al ritmo di quel fuoco noi giovani adolescenti ballavamo. Non avevamo motorini come i nostri coetanei in Italia ma riuscivamo a metterci d’accordo per farci accompagnare da uno o l’altro autista o qualche mamma volontaria per andare a casa dell’ uno o dell’altro e passare i pomeriggi assieme. Spesso ci ritrovavamo a casa di Paolo Z. che aveva la casa libera = senza la presenza di alcun genitore. Paolo Z. era un oste formidabile a volte ci invitava e altre ci consentiva di  autoinvitarci e quando non era intento a riparare radio o altri oggetti elettronici preparava vassoi colmi di bigné, torte al cioccolato e fresche vaschette di gelato. 
Non eravamo mai meno di 5 e in media ci incontravamo in 8 a casa sua, dove c’era una piscina e dove organizzavamo tossiche battaglie con la schiuma pulisci-moquette, un gioco assolutamente senza senso ma che ci faceva ridere a crepapelle. Durante questi pomeriggi ci scambiavamo osservazioni sulle relazioni, sulla vita e sul sesso. Renzo Z. aveva attrezzato una saletta per la musica  con tanto di mixer e amplificatore e assieme a Stefano R. e Paolo G. avevano creato i Kobos (un gruppo musicale con  lo stesso nome delle monetine nigeriane). Renzo alla tastiera, Paolo alla chitarra Stefano alle percussioni e voce, ci deliziavano con le loro creazioni se non dal vivo per via telefonica ci davano un anteprima dei loro pezzi originali. 
E sempre durante i pomeriggi organizzavamo i mitici parties. Che diventavano anche occasioni di inclusione dei coetanei di altre nazionalitá . 
Il salotto dell’oste si trasformava in una discoteca improvvisata. In mezz’ ora riuscivano a coprire le finestre con delle coperte oscuranti, ad allestire un banchetto di bibite e cibo, a montare luci, stereo e casse,  a trovare tra di noi il DJ di turno, e finalmente si dimenticava tutto e si ballava. 
Questi rituali si ripetevano a scadenze piú  o meno regolarei e man mano che crescevamo, nonostante gli arrivi e le partenze di molti di noi, i parties si organizzavano sempre piú  tardi nella serata fino a quando non fu piú  necessario oscurare le finestre, e le bibite dei banchetti si  arricchirono di bevande alcoliche. Quelli che ricordo con piú  gioia tuttavia rimarranno sempre i parties pomeridiani, che avevano un maggiore gusto di  scoperta  di autenticitá , e in cui erano presenti gli amici cari che andarono via assieme alle coperte dalle finestre.

Un altro dei riti era quello di andare al mare la domenica. 
Trovandosi direttamente vicino all’ oceano Lagos offriva diverse possibilitá . 
In particolare due sono le spiagge che sono state mie regolari mete. 
Raggiungibile a pochi minuti di macchina a Victoria Island c’era  Bar-beach. Una spiaggia aperta  dove le onde oceaniche arrivavano non interrotte da alcuna barriera direttamente a riva e dove era abbastanza pericoloso nuotare per via delle onde e delle forti correnti. La sabbia era “spessa”, guardandola attentamente si intravedevano frammenti di conchiglie frantumate che a volte si trovavano  intere in tutto il loro splendore. Bar beach me la ricordo famosa per 2 cose assolutamente e spaventosamente scollegate . Era la spiaggia dove venivano impiccati o uccisi in altro modo atroce gli uomini condannati alla pena di morte ed era la spiaggia dove venditori ambulanti servivano la suya. Fortunatamente non ho mai assistito ad alcuna esecuzione ,  il senso di sgomento che derivava da tale informazione veniva in qualche modo esorcizzato dal fumo della brace e dal gusto degli spiedini piccanti della suya. Ma l’amaro gusto dell’assurditá  rimaneva e rimante latente.

Raggiugibile da Victoria Island attraversandola laguna in formidabili e precarissime imbarcazioni, chiamate banana boats, c’era Tarkwa Bay. Il percorso nelle lunghe e nere barche di legno durava circa 20 minuti ed era parte della rischiosa avventura.Durante il tragitto si passava vicino all’entrata del porto e si intravedevano i grattacieli della City Island. Tarkwa Bay aveva 2 accessi al mare, uno piú  riparato scavato dalla spiaggia in mezzo alla laguna e l’altro che si raggiungeva camminando su delle vecchie rotaie abbandonate per circa altri 20 minuti. Lì la sabbia era finissima e la scarpata continentale si estendeva per quasi un kilometro risultando in una passeggiata di onde fragorose in cui peró era possibile camminare,nuoticchiare e fare un tipo particolare di surf. Distesi di pancia sulle tavolette di legno, che si affittavano dai nigeriani di Tarkwa Bay, aspettavamo le onde per planare per una cinquantina di metri  per poi ricominciare. Le abili mami nigeriane trasportavano vassoi colmi di frutta, olio di cocco, noccioline, bibite e di tutto un po’ sulla loro testa e passavano a venderla sotto i capannini costruiti con assi di legno e rami di palme sotto cui eravamo accampati. Cosí  unti di olio di cocco, ci nutrivamo di ananas, mango, banane e papaia e bevevamo fresco latte di cocco dalle noci ancora verdi aperte a borraccia dai macete delle mami. Mangiavamo, bevevamo, giocavamo e guardavamo da lontano con un senso di ansia, presto cacciato via dalle onde del mare, i nostri zaini. Dentro lo zaino erano stati messi con cura e tanta buona intenzione il libro o i libri con gli ultimi compiti da terminare prima del lunedí . Inutile dire che i libri non furono mai aperti in spiaggia ma ció nonostante facevano sempre parte del fagotto. Immancabilmente tornavano caldi e brucianti di senso di colpa a colorare il dopo cena di domenica fino a tarda notte.
Quando si viaggia molto i pivot della vita sembrano scandire le svolte in modo esemplare, quasi come se ci fossero delle lancette di un orologio invisibile ad indicare i tempi e gli avvenimenti. Era settembre del 1985, avevo appuntamento con gli esami di riparazione del secondo anno del liceo scientifico di Lagos. 
Ero stata rimandata in 3 materie, Filosofia, Fisica e l’ immancabile Latino. 

Fu cosí  che incontrai Paolo Giunta La Spada, il nuovo Prof.  di storia e filosofia e anche colui che avrebbe deciso in parte le mie sorti. 
Mi trovai di fronte ad un uomo con i riccioli neri e gli occhi azzurro-blu incorniciati dagli occhiali che sembravano giá  parlare del suo interesse nei confronti del mondo. 
Avevo studiato, ma avevo comunque paura. 
Mi resi conto che mi trovavo di fronte ad una persona che andava oltre le apparenze. Mi era istintivamente  simpatico e intesi che doveva pormi delle domande sul programma svolto e notai subito la noia di doverne ascoltare le risposte. 
Quello che io lessi nella sua espressione era un misto di divertimento e al contempo rassegnazione di dovere svolgere questo ingrato compito. 
Credo che ció che risposi lo rassicuró piú  sul fatto che io avessi studiato ma non che veramente ci capissi alcunchédi filosofia. 
In qualche modo superai gli esami, fui ammessa al terzo anno e Paolo G.L.S.  diventó il mio professore di storia e filosofia per i successivi 2 anni.
Quando penso a Paolo Giunta La Spada penso al’ introduzione eroica del nome che porta e le prime parole che mi vengono  in mente sono prospettive ed orizzonti. 
Ma quando penso a lui non posso fare a meno di pensare ed associarlo ad altri due insegnanti Sabrina Ghio e Francesco Mele che sento di dovere menzionare. 
Questi tre meravigliosi individui sono gli insegnanti che hanno contribuito maggiormente a ridefinire il ruolo e l’ idea di “insegnante” e rimangono nel mio essere indimenticabili pietre miliari.
La mia percezione della scuola italiana a Lagos aveva assunto tonalitá  color grigio spento. 
Le giornate si susseguivano con una ripetizione narcotica e abbastanza dissociate dalla realtá  in cui eravamo immersi. 
Fuori c’era la Nigeria, dentro ma lontana c’era l’ Italia e la scuola Italiana “espatriata” e in mezzo c’era tanta formalitá  di programmi ministeriali da seguire in modo approssimato.
L’arrivo di Paolo G.L.S., Sabrina Ghio e Francesco Mele fu per me un regalo tanto inaspettato quanto gradito. 
Finalmente mi trovavo di fronte a 3 individui che insegnavano discipline diverse in modo diverso, ma erano armati tutti dello stesso spirito. 
Non ti chiedevano di rigurgitare informazioni ma ti invitavano a riflettere e a pensare autonomamente. 
Fu cosí  che la mia tavolozza ebbe modo di essere spolverata ed io ripresi in mano tutti i colori che avevo tenuto sotterrati.
Grazie alla loro presenza gli ultimi anni del liceo furono per me un vero elisir sia per la mente che per la mia anima. 
Il mio spirito creativo in germe era assetato di ascoltare voci nuove e  di conoscere altre realtá . Paolo, Sabrina e Francesco mi diedero acceso alla caravella delle meraviglie. 
Le loro lezioni mi ispiravano e mi incoraggiarono a ricercare nuove prospettive e a riflettere su elementi che fino ad allora erano rimasti latenti percezioni. 
Cosí  indipendentemente dalle nozioni che appresi sento che grazie a questo multiplo incontro fui iniziata alla gioia dell’ investigazione sulla preziositá  dei temi della vita.
Paolo attraverso  la storia e la filosofia , Sabrina attraverso la letteratura italiana e latina lasciavano che la mia mente viaggiasse nel tempo e nello spazio per entrare nel flusso del cosmo, Francesco attraverso la geografia astronomica lo concretizzava. 
Attraverso le lezioni di Paolo e Sabrina percepivo le ali dell’essere umano e attraverso le lezioni di Francesco percepivo l’effetto potente della forza di gravitá .
Furono loro che piantarono i semi nel terreno fertile che li attendeva e fu attraverso il loro insegnamenti che iniziarono a crescere germogli di consapevolezza e di voglia di approfondirla. Entrare in contatto con i pensatori e gli scrittori del passato vicino e lontano, contribuiva in qualche modo al mio senso di appartenenza al genere umano. 
Mi faceva entrare in quel tempo non impregnato dalla cronologia, il tempo che i greci definivano Kairos. 
Nella mia visione c’erano 2 realtá,  quella delle cose pratiche e quella dello spazio tempo che iniziai a chiamare la seconda realtá . Il mio senso di appartenenza era molto confuso ma avevo la percezione che in qualche modo stavo iniziando a prendere uno schieramento e che questo avesse a che fare sull’ investigazione di questa seconda realtá .

Ci sono due ricordi che associo a  Paolo che si sono cristallizzati nella mia memoria. Il primo riguarda la prima lezione di filosofia in 3° liceo. Paolo chiuse la porta, si sedette alla cattedra  e si presentó. In puro accento romano disse il suo nome e da dove veniva e noi sorridemmo. Ci disse che sarebbe stato il nostro insegnante di storia e filosofia e poi ci invitó a presentarci e a turno ci chiese di rispondere alla domanda: “cosa é secondo te la filosofia?”.
Ascoltó  tranquillo ognuna delle nostre risposte validandone l’ importanza  e poi ci disse che per rispondere a questa domanda ci avrebbe raccontato ció che diceva al suo giovane nipote di 6 anni quando gli poneva lo stesso questito.
- cosa fai quando ti svegli la mattina?
- mi alzo, mi infilo le pantofole, mi lavo, mi vesto…
- perfetto, ecco la filosofia é alzarsi, infilarsi le pantofole e vestirsi,  e nel frattempo domandarsi perché si fanno tutte queste cose…
Per me fu un vero colpo di fulmine, segnó l’ inizio di un dialogo tra insegnante e studenti e creó l’atmosfera di interesse indispensabile per  approfondire gli argomenti trattati  ad ascoltare le reciproche opinioni cosí  come a creare spazio nelle nostre menti.

L’altro ricordo riguarda una conversazione che avvenne fuori dalla scuola.  In quel periodo a scuola c’erano credo circa 600 studenti tra elementari, medie, liceo scientifico e liceo linguistico.  Iniziai il liceo con altri 11 studenti, eravamo 10 al secondo anno, 7 al terzo e ci ritrovammo in 6 al quarto ed ultimo anno. Non erano stati tutti bocciati, la maggior parte era andata via a causa del trasferimento lavorativo dei genitori.  Se era normale frequentare i propri compagni di scuola, nel tempo libero diventó altrettanto normale incontrare anche alcuni professori in diverse occasioni sociali. Magari invitati a cena da amici comuni o a volte invitandoli anche a casa propria. Credo che ci trovassimo a casa dei miei e si discuteva sul tema dell’ amore. Io provengo da una famiglia non proprio tradizionale ma pur sempre siciliana. 

Avevo 17 anni e raccontavo che tra i miei sogni c’era quello di incontrare la mia anima gemella.  Fu cosí  che Paolo mi enunció la sua teoria sull’anima gemella. Mi disse di pensare al numero di persone sulla terra che ammontava a circa cinque miliardi e mezzo e al fatto che se eravamo destinati ad incontrare solo un’anima gemella le probabilitá  erano davvero molto scarse, quasi nulle. Mi disse che secondo lui esistevano molte anime gemelle forse anche qualche migliaio e che nella vita se ne possono incontrare alcune. 
Ascoltando Paolo, presi immediatamente coscienza delle mie origini culturali, e di tutto quello che mi era stato tramandato senza parole dalla mamma, nonna bisnonna e il cerchio allargato delle zie e cugine. 
Non ero pronta ad abbandonare la mia visione romantica ma ero comunque intrigata e disposta a prendere in considerazione la sua teoria, l’alternativa era spaventosa.
In un senso avere avuto questa conversazione mi ha salvato la vita. Ho sempre avuto un grande spirito materno, una qualitá  che non mi piaceva possedere. Ascoltavo le persone parlare di me e sentivo che le aspettative circa il mio futuro erano associate  a questa qualitá  e  in linea diretta al fatto che il successo della mia vita sarebbe stata legata al matrimonio e alla procreazione. 
Dunque da qualche parte almeno in superficie ero protesa alla ricerca di questa anima gemella. Non mi sentivo sicura di nulla al mondo, l’ unica cosa di cui ero certa é che mi piaceva studiare e disegnare e amavo l’arte in tutte le sue manifestazioni . 
Cosí in cerca della mia anima gemella é iniziato lo slalom del mio essere un eterno studente. 
Dopo avere studiato  disegno e tessuto a Firenze lavorai un anno tra Francia, Germania e Olanda. Poi approdai  in Irlanda inizialmente per studiare artigianato, lì  mi sentivo a casa e quindi ci rimasi per i successivi 10 anni. 
Ho incontrato alcune anime gemelle ma non mi sono sposata, ho fatto pace con il mio istinto materno e dopo avere lavorato nel settore educativo fuori dalle scuole sono tornata a studiare.  
Scelsi le discipline artistiche perché erano quelle che meglio mi permettevano di entrare in contatto con lo” spazio- tempo “ ma anche a contatto con le persone con cui lavoravo. Sono diventata insegnante di arte e design e ho lavorato  al  National College di Art & Design di Dublino fino al ’99 . Poi incontrai un ‘ altra anima gemella. 
Lasciai tutto e mi trasferii in Islanda. La nostra storia finí , ma io rimasi a  lavorare all’accademia d’ arte di Reykjavik e rispresi a studiare e a ricercare sulle possibili applicazioni dei linguaggi visivi nell’educazione infantile. Un giro di bussola che mi portó incredula dall’ Islanda a fare un tirocinio presso le scuole d’ infanzia di Reggio Emilia. Continuai  a lavorare presso l’accademia di Reykjavik fino a che non sentii un grande bisogno e una grande voglia di conoscere il mio paese e di riscoprire la mia lingua madre. Cosí  guidata da tanta nostalgia e armata di un po’ di senso dell’avventura sono tornata a vivere in Italia nel 2007.

Ritornare in Italia e riambientarmi non é stato facile come dicono a Roma “manco pé niente”. Cercavo lavoro a Catania sui passi del tango argentino, e un pivot mi portó a studiare Illustrazione in Cornovaglia.  
Milano arriva apparentemente per caso nel 2009, come una scelta presa per esclusione di altre . Dopo un treno in corsa di lascia e prendi  di cittá  , case , impieghi,   e incontri di anime gemelle mi rendo conto che raggiungo oggi il mio record residenza piú  lungo: ben 8 anni in nella stessa cittá  nella stessa casa e facendo lo stesso lavoro. Nel mio tempo libero disegno, ballo, studio Arteterapia e Yoga.
Il treno oggi è fermo nella Stazione di Milano, ma forse domani riparte, chi puó dirlo. E l’ anime gemella? Forse l’ho incontrata o forse no.
Ma nel grande cerchio della vita sento che ho incontrato la mia di anima e forse é il primo passo verso la connessione con tutte le altre. Lavoro in una scuola internazionale abitata da studenti che arrivano da ogni parte del mondo e che ripartono per ogni altra. Sono tornata ad abitare un ambiente lavorativo colmo di espatriati.  Ancora una volta torno a riflettere sul concetto di appartenenza culturale. 
Ci sono abissi economici che mi separano dai miei studenti, ma la barriera é solo la forma. Mi appare sempre piú  chiaro che il mio villaggio non ha confini territoritoriali  ma é delimitato dall’ esperienza che ci accomuna: il viaggio, anche la vita é un viaggio, si sa quando si é partiti ma non si sa quando si arriva. Ed é sulla scia di questa consapevolezza che ho trovato il sentiero su cui camminare. 
Passo dopo passo l’identitá  si trasforma. 
Continuo ad immergermi nella seconda realtá  ed é con questo spirito che accolgo i miei studenti. Sicuramente sono esenti dai problemi legati alla sopravvivenza economica, ma  hanno comunque bisogno di ascolto di attenzione e di tanto dialogo. 
Insegno arte e yoga al pomeriggio e di mattina faccio la segretaria- mamma- tutto fare. Ho una grossa palla di Pilates in ufficio, la uso per sgranchirmi la schiena dopo avere lavorato al computer. Gli studenti l’hanno scambiata per il loro sgabello  e spesso ci si siedono e, mentre ci rimbalzano sopra, mi raccontano le loro storie e i loro pensieri e io cerco di ascoltarli senza censure e senza troppi interventi.  
Mi domando, come ogni insegnante credo, cosa veramente tento di trasmettere? Si dice che si insegna meglio ció che abbiamo piú  bisogno di apprendere e allora mi viene da dire che se durante il tempo che trascorriamo assieme riuscissi a trasmettergli un momento di connessione  allora é questa la chiave che cerco di donargli.

Non capita a tutti gli insegnanti di vedere i germogli dei semi piantati per questo sono sono felice che tu abbia lanciato questa proposta.

É diventata un’ occasione di rivisitare un posto, Lagos dove non tornavo da molto, molto tempo e mi ha offerto l’ opportunita di dirti: grazie Paolo!







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